40 anni fa moriva Franco Basaglia, lo psichiatra che restituì dignità ai malati
Chiedi chi era Franco Basaglia, chiedilo a una ragazza di quindici anni di età. Chi era mai questo Basaglia, lei ti risponderà. Sono passati quarant’anni dal 29 agosto 1980 in cui Franco Basaglia se n’è andato all'età di 56 anni, quasi all’improvviso. Lo psichiatra, il neurologo, l'intellettuale. Fondatore di Psichiatria Democratica e papà (come si dice) della "180", legge del 1978, il caposaldo legislativo di quella riforma degli ospedali psichiatrici che portò alla chiusura dei manicomi e all'apertura di una nuova stagione, quella dei servizi, che rivoluzionò il modo in cui oggi guardiamo al concetto di salute mentale. Tema in cui noi, in Italia, per decenni siamo stati all'avanguardia.
In poche, semplici, parole: Franco Basaglia è stato (e tuttora è) il più importante psichiatra italiano del ventesimo secolo. L'uomo il cui pensiero è alla base di una delle maggiori conquiste democratiche dell'Italia repubblicana, capace di spiegarci – per usare una delle sue frasi più famose, troppo spesso confuse nella semplificazione "pop" degli ultimi decenni – come e perché "visto da vicino, nessuno di noi è normale":
In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla.
Prosa limpida, pensieri puliti, un grande intellettuale. Anche questo era Franco Basaglia. Purtroppo oggi, come da più parti viene sottolineato ed è stato scritto di recente da Maria Grazia Giannichedda sul Manifesto, dopo decenni trascorsi a colpire, prima ideologicamente e poi con la sostanza di tagli ai finanziamenti (non solo quelli, anche spostando quelle risorse in altri ambiti) siamo in una situazione di sostanziale regressione di quelle conquiste, anzi, di una vera e propria restaurazione, poiché – scrive Giannichedda – "i medici, gli infermieri, gli psicologi che oggi lavorano in questo sistema, in gran parte malpagati e precari, di Basaglia non sanno nulla, né della legge «180» né della riforma sanitaria né di cosa siano un servizio di comunità e una politica pubblica di salute, o se ne sanno è per scelta propria, dal momento che le facoltà di medicina e di psicologia non si occupano di questi temi, ignorano del tutto Basaglia ed evitano ogni discorso critico su salute, malattia, medicina". C'è tutto il tema della medicalizzazione dell'esistenza umana e della stessa psichiatria, tema che travalica i confini disciplinari ed è questione politica tout court.
Ma non c'è solo l'enorme problema della restaurazione sottile e strisciante di chi vorrebbe farci tornare indietro (e in parte lo abbiamo già fatto) nel campo della psichiatria e mettere definitivamente la pietra tombale sulla rivoluzione basagliana. C'è anche la questione, correlata alla prima, del rischio di musealizzare il suo pensiero e la sua pratica, di trasformarla in slogan buoni al massimo per un post su Instagram. Combattere questa tendenza in atto, che difatti ne svuota il senso politico dell'azione, diventa di fondamentale importanza, secondo i basagliani più convinti. Ma dovrebbe essere un territorio in cui ritrovarsi tutti, nel nostro Paese. La politica dovrebbe curare il giardino basagliano con insistenza e precisione, noi cittadini vigilare sulla politica affinché lo faccia.
Ragion per cui vale ancora di più la pena quest'anno, in occasione dei 40 anni della scomparsa di Basaglia, rileggere la sua biografia "Franco Basaglia" di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio pubblicata dalla ab Alphabeta Verlag, che l'ha rieditata aggiornata nel corpus di note e arricchita di quanto sull'argomento è stato pubblicato negli ultimi venti anni e di una introduzione dello psichiatra teorico Eugenio Borgna.