30 anni fa muore Primo Levi: ancora oggi un suicidio enigmatico
L'11 aprile 1987 lo scrittore Primo Levi si uccise gettandosi dalla tromba delle scale della sua abitazione a Torino. Da quel tragico giorno sono trascorsi trent'anni senza una risposta. Primo Levi, infatti, a differenza di Cesare Pavese, non ha lasciato biglietti, né lettere, o messaggi di nessun genere. Da allora studiosi e appassionati si sono cimentati in diverse supposizioni su cosa possa aver spinto quest'uomo mite, non ancora settantenne, che era sopravvissuto alla tragedia della Shoah, a compiere un gesto simile. Probabilmente una motivazione non c'è e non si scoprirà mai.
"Nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato"
D'altro canto, fu lo stesso Primo Levi a scrivere qualche anno prima, a proposito del suicidio di Jean Amery, ex deportato come lui, che "nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato". Primo Levi aveva vissuto sulla propria pelle gli orrori del nazismo, fu catturato il 13 dicembre 1943 dai nazifascisti in Valle d'Aosta per esser deportato nel febbraio dell'anno successivo nel campo di concentramento di Auschwitz come ebreo.
Con la liberazione da parte dei sovietici, riuscì a scampare a morte sicura nel lager e da quel momento la sua missione divenne raccontare le atrocità a cui aveva assistito. "Se questo è un uomo" è diventato un classico della letteratura mondiale, il romanzo per eccellenza delle terribili esperienze nel campo di sterminio nazista. Al suo ritorno alla vita, fino alla morte per suicidio dell'11 aprile di trent'anni fa, Primo Levi continuò a vivere con senso di colpa il fatto di essere sopravvissuto. Forse per questo, oltre a forme di depressione di cui aveva sofferto anche da ragazzo, aveva poi scelto di suicidarsi?
"Perché io?": il senso di colpa come causa del suicidio
"Perchè io?" si chiede lo scrittore Primo Levi ne "I sommersi e i salvati". Perché io sono sopravvissuto e gli altri no? Questa domanda assillava Primo Levi, lo assillava dal suo ritorno dall'orrore della Shoah. Probabilmente, come ebbe a dire un suo amico, Levi era sopravvissuto perché in quando scrittore aveva il compito di raccontarlo. Ma questa condizione per Primo Levi era insopportabile: sentire di aver ricevuto in dono qualcosa di terribile, dover raccontare ciò che aveva vissuto e così rivivere all'infinito la sofferenza dei lager. Questo ruolo di testimone eterno, dopo molti anni doveva averlo sfiancato al punto da fargli scegliere la morte.
L'esperienza dei lager: una vergogna troppo grande?
Una delle tesi più accreditate per il suicidio di Primo Levi è quella sostenuta da Marco Belpoliti. Il critico e scrittore emiliano sostiene che la considerazione di Primo Levi sui nazisti nei lager, che egli vedeva come uomini non così diversi e mostruosi rispetto da tutti gli altri, deve aver posto in Levi i germi di una considerazione finale sul genere umano, che avrebbe poi confermato negli anni successivi alla liberazione. E cioè che forse tutti saremmo capaci di ripete tali atrocità, che il vero lager è il mondo stesso: queste considerazioni pessimistiche sugli uomini probabilmente avrebbero condotto quell'11 aprile di trent'anni fa Primo Levi a compiere il salto definitivo nel vuoto.