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29 agosto 1991: 25 anni fa Cosa nostra uccide Libero Grassi, un eroe normale

Il 29 agosto 1991 l’imprenditore siciliano viene assassinato a Palermo. Si era opposto alla richiesta di pizzo del clan Madonia, denunciando il ricatto sulla stampa e in Tv. Dopo la sua morte nasce un nuovo tipo di eroe: uomini e donne normali, il cui rigore morale individuale diviene punto di riferimento a cui affidare la difesa del bene comune.
A cura di Marcello Ravveduto
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Il giorno dopo la morte (30 agosto 1991) i media costruiscono le fondamenta del mito eroico di Libero Grassi, l’«imprenditore coraggioso» che si è opposto alla richiesta di pizzo di Cosa nostra. La stampa ordisce la trama del martirio: Grassi non è solo l’industriale antimafia, ma anche l’emblema di una ribellione possibile.

Su tutte spiccano due parole: simbolo ed eroe. Libero è, per il giornale palermitano “L’Ora”, «bandiera degli onesti», «uomo costretto ad essere eroe», «un eroe nella città sbagliata»; per il quotidiano catanese “La Sicilia” «il simbolo della lotta al racket»; per “il Manifesto” «simbolo della resistenza di Palermo alla mafia», «simbolo della rivolta morale» e «simbolo e riferimento di lotta alla mafia»; per “l’Unità” «simbolo della ribellione civile allo strapotere delle cosche»; per “Il Mattino” «un eroe del nostro tempo», «simbolo capace di mobilitare le speranze» e «simbolo del cittadino che sa dire di no alla protezione mafiosa»; per il “Secolo d’Italia” «raro simbolo di ribellione allo strapotere mafioso», «uno dei simboli della opposizione di Palermo alla criminalità organizzata»; per “La Stampa” «simbolo dell’impegno antimafia», «simbolo della Sicilia che non si rassegna», per «Il Tempo» «una sorta di simbolo che andava eliminato»; per “Repubblica” «il simbolo dell’Italia che resiste», «l’eroe della lotta alle cosche»; infine per il “Corriere della Sera” «essere onesti, ritrovarsi eroi», «ucciso il simbolo della lotta al racket», «l’uomo che commercianti e industriali di Palermo dovrebbero ricordare come un eroe» .

Il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, volando a Palermo per rendere onore alla salma, si rivolge alla moglie dicendo: «Peccato signora che non esistano leggi eccezionali per gli eroi nazionali» . Come se non bastasse l’anno successivo l’Eurispes, nel Rapporto Italia ’91, segnala che dopo l’omicidio di Libero Grassi è maturata una nuova consapevolezza nella società italiana: mafia e disimpegno sono intimamente collegate.

Secondo l’istituto di ricerca, il 29 agosto del 1991, è nata una figura imprevista, destabilizzante per la mafia e per lo Stato che la combatte: la figura dell’eroe.

Un eroe diverso da quelli belli, prepotenti e rampanti celebrati nei film, nelle riviste patinate e persino dai partiti politici degli anni Ottanta. Un eroe, privo di particolari superiorità, che smaschera la pochezza dei finti eroi, paladini del lusso, cultori dell’immagine ed esperti della comunicazione di massa. Uomini e donne normali il cui rigore morale individuale diviene, nella latitanza di personaggi pubblici carismatici, punto di riferimento sostanziale a cui affidare la difesa del bene comune, in ragione di una crisi istituzionale, politica e criminale, iniziata negli anni del cosiddetto “riflusso” e che, agli inizi degli anni Novanta, diventa urgente.

La morte di Libero Grassi, con la sua dirompente solitudine, sembra essere l’ostacolo insormontabile contro il quale inconsapevolmente sbatte la mafia perché costringe le istituzioni ad un meccanismo di risposta. «Quella morte ci fa capire che non tutto è perduto se esistono ancora persone capaci di sacrificarsi per un principio, per dei valori».

Libero, dunque, armato di coraggio è «l’imprenditore che sfidò la Piovra», come titola “La Stampa”. Eppure, il presidente dell’associazione industriali di Palermo, Salvatore Cozzo, lo accusa di mettersi in mostra con le sue denunce, di fare una tammurriata, come si dice in Sicilia. La presa di posizione lo isola in un limbo civile senza ritorno. Grassi non ci sta e dichiara di non essere un Don Chisciotte.  Non gli piace essere associato al cavaliere della Mancia lanciato al galoppo contro i mulini a vento: nella vulgata popolare quell’uomo è solo un pazzo visionario da non frequentare. L’obiettivo, perciò, è attirare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale in modo che la sua vicenda, nata da una denuncia mediatica, divenga discussione collettiva.

La tribuna ideale è Samarcanda. Michele Santoro, il conduttore, ha trasportato in video l’idea della piazza. Lo show affida il suo successo alle storie dei protagonisti che imparano ad esibire la loro “intimità” per tendere la mano ai telespettatori. L’agorà di Santoro è sinonimo di prossimità, una vicinanza audiovisiva che annulla le distanze tra io e tu, tra me e l’altro. Si coniugano spettacolo e denuncia, alla ricerca di una storia che provochi un’emozione coinvolgente.

Libero si sottopone al gioco dei riflettori, alla “intromissione voyeuristica” delle telecamere per non rimanere solo nella sua ribellione. Suscitare clamore può essere utile a “confondere” Cosa nostra, a prendere tempo in attesa che l’afflato virtuale diventi concreta solidarietà. Una tattica complementare alla strategia della resistenza, o meglio della sopravvivenza.

L’apparizione televisiva dell’aprile 1991, gli articoli della stampa del “giorno dopo” e l’evento mediatico Rai-Fininvest (per la prima volta a reti unificate), voluto da Michele Santoro e Maurizio Costanzo in suo onore, nel settembre successivo, hanno reimpostato la memoria collettiva nel verso del paradigma vittimario annichilendo ogni tentativo di rintracciare le radici profonde di una scelta morale. La vita di Libero Grassi si riduce all’arco temporale dei pochi mesi (gennaio – agosto 1991), vissuti nell’assillo di r-esistere al racket delle estorsioni.

Il cadavere legittima la sua verità e trova finalmente ascolto in un’opinione pubblica totalmente assorbita dallo scontro binario vittima-carnefice. Il corpo, ancora caldo, del «coraggioso imprenditore» viene trasportato in uno spazio pubblico colonizzato dal lutto e dal dolore. Soffocato dal mercato delle emozioni, subisce l’autopsia del circo mediatico che inscena una competizione vittimaria, tra assordanti opinioni e articolate interpretazioni, per emozionare, commuovere, suscitare consenso. La sofferenza urlata, non certo dai familiari, sfonda le barriere dell’audience e dell’ascolto.

Libero Grassi ascende, così, all’empireo della mitologia postmoderna: l’eroe non uccide il drago, ma svela l’orrore e l’assurdità della tirannia mafiosa. Un’immaginazione sociale agente tra ideologia ed utopia, ovvero tra la conservazione di un ordine esistente e la previsione di una dimensione nuova del futuro. Il mito eroico di Grassi non è un unicum, si accoda ad una lunga scia di paladini dell’antimafia. La morte acquista valore simbolico entrando in contatto con i media che le attribuiscono un significato più duraturo e più vasto di quello denotato. Le vicende passate assumono valore di tradizione, a cui attribuire una verità storica, che incarna o simboleggia alcuni valori fondamentali della società.

Nel 2005, ne “I siciliani”, Gaetano Savatteri scrive: «… gli atteggiamenti di Libero Grassi … non sono frutto di una decisione estemporanea, un colpo di testa o il capriccio di un uomo bizzoso. Dieci mesi prima di essere ammazzato, il 10 gennaio 1991, mette nero su bianco il suo manifesto eretico, condensando in poche righe pubblicate una vita segnata da scelte politiche e personali che spiegano il senso della sua eresia, che è in definitiva “l’eresia della normalità”».

Un’ipotesi che condivido. Ho sempre pensato che Libero fosse un eretico, un eretico borghese. Un uomo dotato di libero arbitrio, capace di andare contro corrente per non contraddire la sua scelta di libertà. Credo che l’elemento distintivo della personalità di Libero Grassi sia l’eresia. Mi ricorda Zenone, il protagonista de “L’opera al nero” di Margharite Yourcenar. Un intellettuale fiammingo che attraversa l’Europa della controriforma vestendo una dimessa tonaca per celare la sua potente eresia. Di fronte ai teologi che lo processano, Zenone si renderà conto «che non esiste accomodamento durevole tra coloro che cercano, pensano, analizzano e si onorano di essere capaci di pensare domani diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto».

Anche l’imprenditore siciliano sarà accusato di eresia dalla sua categoria, assuefatta al “contro-riformismo” mafioso. Grassi non fa altro che seguire la norma, quella naturale e legittima del rispetto della legge e della libertà di esercizio dei diritti/doveri di cittadinanza, ma questo comportamento viene giudicato trasgressivo, scandaloso ed intollerabile nel sistema di regole della “normalità mafiosa”. Un cittadino normale che diventa eretico a causa del «contesto» (abbiamo dimenticato troppo presto la lezione di Sciascia). È la storia di un “diverso”, costretto a lottare contro luoghi comuni e atteggiamenti sedimentati di mafiosità. Un uomo che si è trovato a sfidare accidie intellettuali, acquietamenti morali, fastidi epidermici, convenzioni mentali: nell’informazione, nella politica, nel sindacato, nell’arte, nella cultura, nelle professioni o nella società nel suo insieme.

L’assurdo è che Grassi deve la sua natura eretica alle proprie convinzioni morali, al senso coerente della propria dignità, alla scelta orgogliosa di difendere il suo vissuto e i propri affetti. È un eretico, per orgoglio civile ed onestà intellettuale. Una eresia che gli impedisce di cedere alla rassegnazione, ma soprattutto non gli permette di cercare un alibi per il disimpegno: «… lo temevano gli uomini d’onore: quell’imprenditore dal volto affilato e con i sandali da francescano incrinava il prestigio di Cosa Nostra. L’inquisizione del Sant’Uffizio mafioso non può permettere che l’eresia venga pronunciata e ripetuta. Se l’eretico predica e non viene arso vivo, qualcun altro potrebbe pensare che conviene farsi eretici. Gli sgherri del tribunale di Cosa Nostra volano sopra quell’uomo indifeso, pubblicamente eseguono la condanna, a monito perenne lasciano il cadavere esposto alla vista».

L’eresia della normalità è la corrente che mi ha spinto sulle orme della memoria: dopo venticinque anni Libero non è stato dimenticato, anzi il suo nome riemerge ciclicamente grazie al rito celebrativo familiare.

L’elaborazione del lutto si rinnova pubblicamente anno dopo anno. Davide ed Alice anche quest’anno (per la prima volta senza la madre Pina, deceduta lo scorso giugno) ricorderanno il padre, nel luogo del delitto, spruzzando vernice rossa sul marciapiede e affiggendo un manifesto scritto con le loro mani: «Il 29 agosto 1991 qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’assenza dello Stato».

Non hanno voluto targhe, sottospecie di altarini per santi nostrani, lavacro di sensi di colpa collettivi. La famiglia Grassi ha scelto un’altra strada: l’incontro ravvicinato con la morte. Richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica trasformando Via Alfieri, per un giorno, in un sepolcro. Tra i convenuti, con il passare degli anni, si è aggiunto Alfredo, il nipote che Libero non ha mai conosciuto. La cerimonia familiare ricorda a tutti noi che la società moderna raccoglie e tramanda le testimonianze dei morti e dei vivi. Un rito laico, una cerimonia religiosa nel senso più ampio del termine: cattolici, atei e credenti di tutte le confessioni uniti in una immaginaria conversazione con i defunti.

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