25 anni fa la mafia uccideva Antonino Scopelliti, il giudice incorrutibile
Lo considerano il numero uno dell’accusa pubblica in Cassazione. È stato il primo a trattare procedimenti legati sia al terrorismo (nero e rosso), sia ai fenomeni mafiosi mettendo le mani nel groviglio di collusioni politiche, istituzionali e affaristiche, come nel processo sulla strage del rapido 904. Nel marzo 1991 conclude la requisitoria con la richiesta di conferma degli ergastoli al boss di Cosa Nostra Pippo Calò e a Guido Cercola, nonché l'annullamento delle assoluzioni di secondo grado per gli altri mafiosi coinvolti. Ma il collegio giudicante della Prima sezione penale della Cassazione, presieduto da Corrado Carnevale, rigetta la richiesta assolvendo Calò e rinviando tutto a nuovo giudizio.
Antonino Scopelliti è l’altra faccia della Cassazione: quanto si dice male del giudice Carnevale, tanto si dice bene di Ninuccio, come lo chiamano gli amici. Perché lo hanno assassinato? Il movente riguarda un frangente della storia della mafie che è anche storia nazionale. Il Sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione sta preparando, in sede di legittimità, il rigetto dei ricorsi, avanzati dai difensori dei boss, per le condanne del maxiprocesso confermate in Corte d’Appello. Fallito il tentativo di corruzione, gli offrono cinque miliardi di lire per “aggiustare” la requisitoria, si decide di assassinarlo. La Cupola commissiona alla ‘ndrangheta l’omicidio.
Il magistrato è un soggetto facilmente avvicinabile: gira senza scorta ed è metodico nei suoi spostamenti. Il 9 agosto, tornando da mare, i killer lo intercettano sulla statale poco prima dell’abitato di Campo Calabro. Due fucili calibro 12 fanno fuoco uccidendolo istantaneamente. Cosa nostra non va in vacanza, anzi, quando tutti sono al mare, distratti dalle ferie, lavora meglio. In cambio del favore ricevuto i corleonesi promettono di dirimere le questioni che hanno dato origine alla seconda guerra di ‘ndrangheta, cominciata a Reggio Calabria sei anni prima con l’omicidio del boss Paolo De Stefano.
Nonostante siano stati svolti due processi presso il Tribunale di Reggio (uno contro Riina e sette boss della Cupola, l’altro contro Provenzano e sei boss tra cui Filippo Graviano e Nitto Santapaola), con condanne in primo grado (nel 1996 e nel 1998), gli imputati saranno prosciolti dalle accuse nei successivi appelli (nel 1998 e nel 2000) a causa delle accuse discordanti dei diciassette collaboratori di giustizia. Nel 2012, nell’ambito dell’inchiesta “Meta”, il pentito Antonino Fiume, della cosca De Stefano ed ex cognato di quest’ultimo, dichiara che a uccidere Scopelliti sarebbero stati due reggini su richiesta di Cosa Nostra. Il collaboratore ha redatto un memoriale in cui la morte di Antonino Scopelliti si inserisce nell’inquietante scenario del biennio 1991/1993, configurando l’omicidio come il primo atto della stragismo mafioso.
La ‘ndrangheta, una volta incassato il bonus di pacificazione offerto da Cosa nostra, si smarca dai corleonesi e dalla lotta frontale contro la Repubblica, per intraprendere la più proficua strada dei salotti massonici, sottraendosi alla fase di repressione successiva alle stragi di Capaci, di via D’Amelio, di Roma, di Firenze e di Milano. L’omicidio Scopelliti dovrebbe essere indagato meglio sia in sede giudiziaria, sia in sede storica per comprendere le ragioni che hanno condotto la ‘ndrangheta a conquistare lo scettro della criminalità mafiosa.
Non vi è dubbio che la ristrutturazione organizzativa, avvenuta alla chiusura della faida reggina con la contemporanea sovraesposizione della mafia siciliana, abbia consentito agli uomini del “Crimine” di muoversi agevolmente nei gangli economici, politici e istituzionali del Paese sfruttando a loro favore l’azione di repressione dello Stato indirizzata unicamente, per quasi un decennio, allo smantellamento del clan dei corleonesi. Navigando sotto traccia, costruiscono le relazioni necessarie per presentarsi sul piano internazionale come la struttura criminale più affidabile nel campo del narcotraffico che si sta riordinando intorno al mercato della cocaina. Una mossa abile che, grazie alla copertura di “confratelli”, parenti e affiliati sparsi in giro per l’Italia, le permette di introitare una enorme quantità di denaro liquido da riciclare nell’economia legale, trasformando una parte dell’organizzazione in un complessa holding in grado di espandersi oltre i confini regionali e nazionali.
Sta di fatto che il lutto inferto ai familiari, dopo 25 anni, non è stato ancora ripagato con una sentenza definitiva. La figlia, che nel 1991 aveva sette anni, ne ha portato avanti la memoria insieme ad Ammazzateci Tutti, l’associazione giovanile nata all’indomani dell’omicidio del consigliere regionale della Margherita Francesco Fortugno. Ha costituito prima una fondazione dedicata al padre, poi si è impegnata in politica con il centrodestra venendo eletta nel 2013 in Calabria con il Popolo delle Libertà che ha lasciato per aderire al Nuovo Centro Destra del ministro Alfano.
La lezione del giudice militante rimane scolpita nelle immagini della trasmissione televisiva “Bontà Loro”, il primo talk show della neotelevisione ideato da Maurizio Costanzo. Il giornalista, dopo la gavetta come programmista e autore, riesce ad ottenere la conduzione di un format diverso dai quiz e dai varietà di intrattenimento serale. Costanzo ha pensato a un salotto dove i personaggi pubblici possano conversare informalmente mantenendo un tono confidenziale e ironico. La trasmissione va in onda in diretta il lunedì sera dopo il film per riempire lo spazio vuoto del palinsesto. Si parte il 12 ottobre del 1976.
La scenografia è scarna: tre poltrone color aragosta, recuperate in un magazzino, una finestra e l'orologio a cucù. Il padrone di casa introduce tre ospiti e li provoca con domande maliziose e personali. Niente giochi o battute scollacciate lo spettacolo è nient’altro che la parola. Nel giro di tre settimane l’audience raggiunge la cifra record, per un format in seconda serata, di 11 milioni di telespettatori. Nel salotto di Costanzo sfileranno personaggi di cronaca, politici, registi, attori, stilisti, magistrati, nullafacenti, grandi nomi della medicina, preti e gente comune. Fra i personaggi più noti si ricordano: Giulio Andreotti, Lea Massari, l'ex bandito Luciano Lutring, Franco Zeffirelli, Marta Marzotto, Marcello Mastroianni, il ministro delle Finanze Pandolfi, Alberto Sordi, Luciano Salce, Raimondo Vianello, Emilio Fede, Ilona Staller, Amanda Lear e, naturalmente, Antonino Scopelliti.
Il giudice non è propriamente un personaggio televisivo. È schivo, silenzioso, parla solo se deve affermare un concetto pregnante. È un servitore dello Stato alla vecchia maniera: il contenimento dell’opinione personale come garanzia di un giudizio terzo non influenzato da fattori esterno di carattere politico, sociale e culturale. Partecipa alla trasmissione del 13 marzo 1978, tre giorni dopo Aldo Moro sarà rapito dalle Brigate Rosse del cui caso si occuperà in Cassazione. Costanzo gli chiede del servizio svolto presso il Tribunale di Milano, come Pubblico ministero, negli anni caldi che vanno dal 1968 al 1972.
La domanda è provocatoria: «In quegli anni, dottor Scopelliti, è sempre stato disposto ad accettare l’impopolarità e anche le critiche pesanti di certi giornali per essere contro personaggi in voga, contro mode o indulgenze di quegli anni; cioè lei ha sempre pagato qualcosa per questa sua disposizione, si rendeva conto che forse andava contro certe cose o certe mode di quel momento?». Scopelliti è girato di trequarti e non guarda il giornalista in volto. Prima di rispondere si apre in un sorriso sottile e con estrema pacatezza comincia il suo ragionamento: «Guardi che il giudice non è mai popolare, soprattutto il Pubblico ministero, che è quasi sempre impopolare in tutti i processi. Il giudice va incontro a queste critiche, a volete anche aspre, vivaci, a volte anche ingiuste, ma non può sacrificare il suo ministero, la sua milizia ormai, per una popolarità che non è un suo privilegio. Può essere popolare o non popolare, ma deve fare innanzitutto il proprio dovere… Ho creduto di fare il mio dovere applicando la legge e la legge a volte può portare a delle impopolarità che non devono essere prese in considerazione, cioè nel suo bilancio il giudice non deve inserire la popolarità o l’impopolarità. L’importante è avere la coscienza di fare il proprio dovere, questo, secondo me, è il traguardo unico ed essenziale che il giudice deve proporsi sempre».
Costanzo gli domanda se le minacce ricevute dalle Brigate Rosse lo hanno influenzato nella scelta di passare nella retroguardia della Cassazione. Scopelliti è un po’ impacciato ma ribatte efficacemente: «Non è che il giudice di Cassazione è fuori dalla trincea. In un certo senso si, però è sempre lì ad adempire il proprio dovere svolgendo attività giudiziaria… Ricordo con grossa nostalgia quegli anni… certo la paura, anche l’eroe ha paura… si possono fare dei proclami e rifiutare la paura ma rimangono soltanto parole, l’uomo fisiologicamente ha paura e deve aver paura svolgendo la sua attività, ovviamente deve anche pensare che essendo una milizia, soprattutto quella del magistrato, deve fare il proprio dovere. I momenti di angoscia e di paura ci sono come ci sono per tutti; si tratta di superarli nel migliore dei modi».
Il tema della paura attiva nella mia memoria un flash back che mi rimanda all’intervista realizzata da Marcelle Padovani a Giovanni Falcone in cui il giudice dice: «L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno; è saper convivere con la propria paura, non farsi condizionare dalla stessa, ecco il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza». Con altre parole l’uomo che mise spalle al muro Cosa nostra afferma gli stessi concetti di Scopelliti: la paura è un fattore umano con cui bisogna convivere, il coraggio, pertanto, non è una scelta individuale ma deriva dalla coscienza di dover compiere un preciso dovere.
Del resto il magistrato, prima di entrare in servizio, giura sulla Costituzione orientando il suo comportamento secondo il dettato dell’art. 54: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Il giuramento, che Scopelliti chiama milizia (attribuendo al suo ruolo l’atteggiamento di chi con impegno e spirito combattivo partecipa all'azione di difesa, sostegno e diffusione delle libertà costituzionali), è il rituale laico da cui deriva la coscienza del coraggio, come adempimento del proprio dovere con disciplina e onore.
Ora si comprende perché Cosa nostra e la ‘ndrangheta devono eliminarlo. Hanno di fronte a loro un vero uomo d’onore. Non il malinteso onore mafioso di prevaricazione totalitaria, ma quello derivante da un comportamento rispettoso delle libertà altrui, personali e collettive.
In quella stessa trasmissione afferma: «Spesso mi sono accorto che la strada che seguivo non era quella giusta; il buon giudice è quello che lavora in assoluta umiltà, pronto ad ascoltare gli altri. Spesso succede che nei processi io porto a giudizio una determinata persona e m’accorgo poi, in dibattimento, nella coralità del contraddittorio, che la mia tesi non è quella giusta, e sono felicissimo di cambiarla, perché penso che questo atto di umiltà è un atto di estrema cultura e di estrema responsabilità».
Scopelliti, militante della Costituzione, sa che il rispetto della Legge e il senso del dovere costringono il magistrato ad affrontare, spesso solitariamente, «le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite». Il suo unico appiglio, per non naufragare, è credere fermamente nella Giustizia perché «il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso».