11 anni fa moriva Stefano Cucchi, il ragazzo ucciso a botte dallo Stato
Stefano Cucchi moriva il 22 ottobre del 2009, ammazzato di botte da delle guardie che gli "han cercato l’anima a forza di botte" (prendendo in prestito le parole di De André). Per 10 lunghissimi anni è stato mantenuto un silenzio assordante sulle vicende e le cause che hanno portato alla morte di Stefano. Cause che di certo apparivano chiarissime a sua sorella Ilaria mentre guardava il corpo tumefatto del fratello sul tavolo dell’obitorio: sei giorni prima Stefano era entrato in caserma sulle sue gambe senza alcun trauma fisico. Sei giorni dopo, all'alba del 22 ottobre, morirà ricoperto di lividi e fratture in ogni parte del corpo: alle gambe, al volto, all'addome, al torace, con frattura delle vertebre lombari, del coccige e della mandibola. Quel 22 ottobre Stefano pesava solamente 37 chilogrammi.
Io non sono Stato
Diranno che era un tossico, che era caduto per le scale, che era morto per attacco epilettico, che si era meritato la sua morte perché era un delinquente e faranno di tutto per oscurare la verità ovvero che Stefano è morto di una morte lenta, orribile e dolorosa durata sei lunghissimi giorni e notti. Nessuno per nessuna ragione dovrebbe mai meritare una simile sorte. Soprattutto se vive in uno stato di diritto quale è il nostro. Ma purtroppo il nostro è un paese che per 10 anni ha continuato a urlare una sola frase “Io non sono Stato” (processo sulla morte Cucchi). Una frase che ha un doppio valore a seconda di come la si legga. Una frase urlata di continuo dai vari Giovanardi e Salvini che neppure di fronte alla verità evidente e lampante hanno avuto il decoro, in quanto rappresentanti dello Stato, di chiedere scusa.
La sentenza del novembre 2019
Soltanto la testimonianza di un Carabiniere, presente al massacro, ha squarciato il velo di omertà e silenzio durato 10 anni facendo emergere la tremenda verità: omicidio preterintenzionale. Così dice la sentenza di primo grado, del novembre del 2019, che ha condannato i due carabinieri Di Bernardo e D'Alessandro a dodici anni di reclusione. Quella verità per la quale Ilaria Cucchi, con la sua famiglia, ha lottato tenacemente per tutti questi lunghissimi anni. Una lotta estenuante per rendere giustizia a suo fratello e alle vite perdute di tutti quegli uomini e tutte quelle donne uccisi innocenti da chi avrebbe avuto il compito di difenderli, nelle carceri, nelle manifestazioni di piazza o per la strada: un’infinita lista di nomi che dal 1969, la notte della prima repubblica, ad oggi non ha mai purtroppo smesso di moltiplicarsi. Una lista mai finita a cui appartengono i nomi di Giuseppe Pinelli (ammazzato innocente, buttato giù da una finestra del quarto piano del palazzo della questura di Milano la notte del 15 dicembre del 1969), Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, Franco Mastrogiovanni, Carlo Giuliani, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman etc etc etc Quella verità che, come diceva Licia Pinelli vedova di Pino, è l’unica forma di giustizia. Giustizia che purtroppo dopo 50 anni e innumerevoli morti senza colpevoli viene fatta molto, molto raramente.
Di certo è ovvio che non tutti i dipendenti dell’Arma, delle varie Polizie o della Finanza siano violenti, criminali e assassini. Però è altrettanto vero che ci sia una tale situazione di omertà e connivenza nei confronti delle centinaia di colleghi che operano in questo modo, di continuo e assolutamente impuniti, da apparire ovvio che ci sia un gravissimo problema da risolvere all’interno delle forze dell’ordine italiane.
Voltaire diceva che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri.” e le sue parole suonano come condanna senz’appello della "civiltà" italiana: speriamo non debba essere così ancora, ancora e ancora.