100 anni fa nasceva Natalia Ginzburg: “Lessico famigliare”, la memoria oltre le parole
Scrivere, era solita dire Natalia Ginzburg, non è un mestiere che tiene compagnia. Scrivere non può rappresentare una consolazione, né uno svago. "Per scrivere cose che servono bisogna sentirsi stanchi, ed è lo scrivere in se stesso che deve stancare e deve rifuggire dall'evasione": è così che i ricordi, che per molti possono divenire dolorosi e insostenibili, per la Ginzburg sono divenuti linfa vitale delle proprie memorie e dei propri capolavori. La scrittura è divenuta l'occasione di confronto con il proprio vissuto, con una Storia e dei personaggi che rischiavano di diventare grigi fantasmi del passato. Ma attraverso la parola, ostile al sentimentalismo e piena di immagini più che di lunghi discorsi, Natalia Ginzburg ha restituito questi fantasmi alla vita: raccontando storie che trascendono dall'intima sfera familiare e suggeriscono, ancora oggi a distanza di un secolo dalla sua nascita, il ruolo profondamente intellettuale, storico e politico che questa donna ha scelto di vivere e raccontare con la propria scrittura.
"Una donna non bella e non elegante, vestita di un golfino e di una gonna bluette, l’aria un po’ goffa di certe zie cui si ha sempre un favore da chiedere e di cui non si conosce l’età. Quaranta? Cinquanta? I suoi capelli son neri, con qualche filo di grigio ma raro. Il suo corpo è sodo, diritto. Le sue gambe son solide, da camminatrice. Colpisce, nella sua perpetua tristezza e nel suo non dimenticato timore, l’aspetto sano: robusto, certamente una donna che dorme bene, digerisce bene, porta valigie pesanti senza ansimare, non è mai stata ammalata, ha sempre partorito con facilità e per questo è sopravvissuta agli stenti e ai dolori". Questo è il ritratto che una giovane ed emozionata Oriana Fallaci restituisce di Natalia Ginzburg. È il luglio del 1963, e quello stesso anno la Ginzburg vincerà il Premio Strega per "Lessico Famigliare".
Il linguaggio dell'infanzia
"Furono, i primi anni di Torino, per mia madre, anni difficili; era appena finita la prima guerra mondiale; c’era il dopoguerra, il caroviveri, avevamo pochi denari. (…) Io ero, a quel tempo, una bambina piccola; e non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale, dalla quale ero partita a tre anni". Natalia Levi era nata a Palermo nel 1916, ma sarà Torino la città dove vivrà gran parte dell’adolescenza e della giovinezza: dove insomma, crescerà la donna forte ed austera che tutti conoscono con il nome di Natalia Ginzburg. Qui, nella casa di via Pastrengo, scopre la propria vocazione letteraria e inizia a scrivere numerosi racconti, ed è in questa stessa casa che si formano i ricordi che si trasformeranno in memoria vivente nel romanzo "Lessico famigliare".
Un romanzo che è molto più di questo: si tratta di ricordi, talvolta slegati cronologicamente, ripetuti, ma che affondano le radici nel cuore di chi ha vissuto quegli anni. Non è una “cronaca” famigliare: è un dizionario. Sì, perché è attraverso il lessico confidenziale, affettivo e intimo della sua famiglia che Natalia rivive oltre quarant’anni della sua vita, trasportando le vicende private nella Storia, con i suoi eroi e le sue vittime: il fascismo, la persecuzione razziale, il dopoguerra, la morte di suo marito, Leone Ginzburg, e il suicidio di Cesare Pavese.
Il ricordo di Cesare Pavese
“Lessico Famigliare” ha la capacità di trasformare personaggi reali, di cui si legge nei libri di storia o di letteratura, in personaggi vivi. Come vivo ed emozionante è il racconto che la Ginzburg fa della tragica estate del 1950, quando il poeta Cesare Pavese decide di togliersi la vita. Non la guerra, né le numerose delusioni amorose, ma la vita stessa lo porta alla morte, racconta Natalia:
Guardò oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte era un profondo calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.
Leone e l’antifascismo
A Torino Natalia vive un periodo confuso, inquieto, alla ricerca la propria identità culturale e affettiva: ed è allora che conosce Leone Ginzburg. Amico di Mario, suo fratello, Leone è docente di letteratura russa all’Università. Nasce un’amicizia, che ben presto si trasforma in amore. "Potevano arrestarlo ed incarcerarlo di nuovo; potevano, con un pretesto qualsiasi, mandarlo al confino. Se però finiva il fascismo, disse mia madre, Leone sarebbe diventato un grande uomo politico". Ma il fascismo non finì subito: nel 1940, due anni dopo il matrimonio, Leone Ginzburg viene confinato a Pizzoli, un piccolo paese abruzzese. Nel 1944 verrà catturato e imprigionato a Regina Coeli, e, rifiutando di collaborare, verrà torturato fino alla morte dai tedeschi.
"Quanto alla politica, si facevano in casa nostra discussioni feroci, che finivano con sfuriate, tovaglioli buttati all’aria e porte sbattute con tanta violenza da far rintronare la casa. Erano i primi anni del fascismo. Perché discutessero con tanta ferocia, mio padre e i miei fratelli, non so spiegarmelo, dato che, come io penso, eran tutti contro il fascismo". Natalia Ginzburg cresce negli anni Venti e Trenta, gli anni del regime fascista. Anni complessi, difficili, che nel romanzo trovano ampio spazio attraverso il racconto dapprima della bambina che assiste alle conversazioni, poi della donna che partecipa attivamente all’antifascismo. Una donna che ben presto farà i conti con la violenza non solo ideologica, ma fisica del regime.
Questo è, in parte, "Lessico Famigliare". "Ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito".