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100 anni fa nasceva Ingmar Bergman: nei suoi film, tutta l’angoscia esistenziale di un’epoca

Il cinema di Ingmar Bergman è filosofia tradotta in immagini. I suoi film hanno raccontato l’estrema solitudine dell’essere umano e la grottesca ironia della vita che è, citando una delle scene più famose del regista svedese, nient’altro che una partita a scacchi con la Morte.
A cura di Federica D'Alfonso
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    Bengt Ekerot e Max Von Sydow nella celebre scena de "Il settimo sigillo" (1956) di Ingmar Bergman.

Il 14 luglio del 1918 nasceva, ad Uppsala, Ingmar Bergman. I suoi film sono considerati ancora oggi, a più di mezzo secolo dalla loro uscita, esempi unici e inarrivabili di arte cinematografica pura: ma, oltre alla straordinaria fama come maestro della settima arte, a Bergman va riconosciuta la capacità, disarmante, di aver saputo tradurre in immagini l’angosciosa ricerca di verità dell’essere umano di ogni epoca.

La vita: una partita a scacchi con la Morte

Bengt Ekerot impersona la Morte ne "Il settimo sigillo".
Bengt Ekerot impersona la Morte ne "Il settimo sigillo".

Il suo film più famoso, Il settimo sigillo, ambienta in un Medioevo cupo e spietato le domande esistenziali proprie dei grandi filosofi dell’Ottocento, universalizzando una ricerca che ancora oggi risulta estremamente affascinante. Non è un caso che il cinema di Bergman venga molto spesso accostato alle riflessioni contenute ne “Il concetto dell’Angoscia” del danese Kierkegaard:

Quando la morte si presenta nella sua vera faccia scarna e truculenta, non la si considera senza timore. Ma quando essa, per burlarsi degli uomini che si vantano di burlarsi di lei, si avanza camuffata, (…) allora siamo presi da un terrore senza fondo.

Il regista svedese ha infatti riassunto nei suoi film, con inarrivabile maestria, tutta la sua infanzia, le sue ossessioni e le domande esistenziali proprie di una filosofia che affonda le radici nella stessa educazione rigida e intransigente del luteranesimo che aveva portato Kierkegaard a formulare il suo Aut Aut.

Nella pellicola l’indagine universale sull'inquietudine umana nei confronti del divino si traduce in una grottesca e a tratti ironica partita a scacchi con la Morte: un’immagine che Bergman portava con sé da tempo, fin quando, da bambino, aveva guardato con timore un affresco medievale che ritraeva un uomo intento a giocare d’azzardo con il suo destino.

L’infanzia, origine e fine ultimo del cinema di Bergman

L'attore Victor Sjöström in una scena de "Il posto delle fragole" (1957) di Ingmar Bergman.
L'attore Victor Sjöström in una scena de "Il posto delle fragole" (1957) di Ingmar Bergman.

Il lacerante senso di colpa che si ripropone costantemente per torturare i suoi personaggi, Bergman lo vive sulla sua pelle fin dall'infanzia: complici una madre distaccata e un padre rigido e a tratti brutale, Ingmar Bergman è stato a tutti gli effetti figlio ultimo di una tradizione culturale e di un’educazione religiosa inflessibili, radicate nel freddo Nord luterano. Nei suoi film il paesaggio svedese si ripropone spesso quale specchio dei sentimenti dei protagonisti, siano quelli delle prime pellicole giovanili come “Crisi” o quelli dei film della maturità, come il bellissimo Il posto delle fragole.

E proprio il suo essere eternamente ed angosciosamente bambino lo accompagnerà anche nelle pellicole successive: sintesi perfetta di questo continuo ritorno all’infanzia che fu anche la sua condanna più grande è “Il posto delle fragole” in cui un grandioso Victor Sjöström porta sullo schermo l’alter ego, ormai anziano, di Bergman.

In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà.

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