10 giugno 1940: «L’ora delle decisioni irrevocabili»
L’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico del 1915 è ricordato come un grande evento della storia nazionale, mentre la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, che avrebbe condotto il Paese nel vortice del secondo conflitto mondiale, spesso è dimenticata.
Un processo di rimozione che è servito a proteggere la comunità nazionale dal sentimento di vergogna provocato dai lutti e dalla disfatta. Soprattutto un tentativo di buttare alle spalle, quasi come se non ci appartenesse, il ventennio fascista che ci aveva condotto verso il baratro, rendendo l’Italia, ancora una volta, terra di conquista per eserciti stranieri.
Una guerra che, tra bombardamenti e invasione, mutò in un’immane sofferenza per i civili coinvolti, loro malgrado, nella violenza dello scontro militare. Dimenticare per non soffrire, dimenticare per conquistare una verginità democratica dopo due decenni di dittatura fascista. Ma cosa pensavano gli italiani in quel fatidico 1940?
All’inizio quando la Germania nazista invase la Polonia (settembre 1939) gli informatori dell’Ovra (la polizia segreta del regime) riportavano un atteggiamento ostile verso l’alleato tedesco: non solo aveva umiliato i polacchi ma era sceso anche a patti con i bolscevichi per spartirsi i resti di quella nazione. In più aveva appoggiato l’Armata rossa nell’occupazione della Finlandia. L’atteggiamento dell’opinione pubblica rimase ostile anche quando, il 25 dicembre 1939, il Reich si scagliò contro la Francia, spostando la guerra sul fronte occidentale.
Eppure gli informatori, nell’aprile del ’40, registrarono un cambiamento. I successi delle truppe germaniche in Norvegia e Danimarca destavano profonda impressione per la rapidità d’esecuzione e per lo smacco inferto all’Inghilterra, verso la quale covava il rancore per le sanzioni comminate contro l’Italia nella guerra d’Etiopia. Se in principio il Reich era accusato di comportamento «sleale e disonesto» per aver portato la guerra a «casa d’altri», in seguito gli agenti dell’Ovra rilevarono che «l’aspettativa del successo tedesco è in funzione di quello italiano: quella insomma della completa disfatta inglese e perciò della prossima pace vittoriosa per l’Asse».
L’antipatia e il disprezzo di qualche mese prima tramutavano in vera e propria ammirazione dopo l’invasione dei Paesi Bassi: «la figura di Hitler… assume per l’opinione pubblica proporzioni di una drammatica ed epica grandiosità». Così, il maggio 1940 passò tra l’entusiasmo suscitato dalle vittorie tedesche e la paura che la Germania, una volta eliminati gli alleati, si rivolgesse contro l’Italia (che con la neutralità si era sottratta alle norme sancite dal Patto d’Acciaio). La fantasiosa non belligeranza cominciava ad essere scomoda, soprattutto perché era sempre più forte la pressione del “partito filotedesco” che riteneva «il raggiungimento degli ideali e delle mete» tedesche accomunabili a quelli dell’Italia.
A fine maggio il Paese si scopre “interventista”. Dopo la rovinosa sconfitta inglese a Dunkerque gli informatori sottolinearono che l’opinione pubblica si andava schierando con la Germania e chiedeva di uscire dalla «ibrida situazione» in cui si era messa l’Italia. Sebbene la prospettiva della guerra non sembrasse esaltare gli italiani, diventava sempre più concreta la convinzione che la fine della Francia fosse imminente e che una nostra partecipazione avrebbe abbreviato il conflitto. Si generò un clima di attesa snervante: da una parte l’incertezza dell’avvenire che spaventava e atterriva; dall’altra la voglia di partecipare a eventi, pur burrascosi, che promettevano nuovi traguardi.
Lo stallo ebbe termine il 10 giugno 1940. Mussolini si affacciò al solito balcone e arringò la folla: «Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e, spesso, insidiato l'esistenza medesima del Popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell'edificio, l'ignobile assedio societario di cinquantadue Stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l'Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l'Europa, ma tutto fu vano… Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi ed i sacrifici di una guerra, gli è che l'onore, gli interessi, l'avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia… Questa lotta gigantesca non è che una fase e lo sviluppo logico della nostra Rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi dl braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente Il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l'oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee… L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: Vincere! E vinceremo. Per dare finalmente un lungo periodo di pace con giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo».
Le prime reazioni raccolte dall’Ovra segnalarono che «Il discorso del Duce e l’annuncio della nostra entrata in guerra sono stati accolti, più che con entusiasmo, con un senso di generale sollievo». La gente (fascisti e non) si rendeva conto che non era più possibile «stare alla finestra». Si consolava pensando che i nemici erano Francia e Inghilterra, in quel momento più deboli della Germania, e che nel giro «di tre-quattro mesi» tutto sarebbe terminato.
Nonostante si continuasse a registrare la fiducia nell’operato del Duce, permaneva il timore per un conflitto che già aveva trascinato i civili nella battaglia. Il nemico tanto evocato, che impediva all’Italia fascista di dimostrare la sua grandezza, era finalmente arrivato. Si preparava, per i nostri avi, un futuro ricco d’incognite e di false speranze in cui, per un breve periodo, si pensò di poter essere alla pari delle grandi potenze mondiali, grazie all’arguzia del dittatore.
Poi venne la sconfitta in Grecia e subito svanì la sensazione di «saper fare» come la Germania. Fu chiaro che non ci sarebbe stata una rapida conclusione della guerra e che le incursioni aree degli inglesi avrebbero stremato la popolazione, costruendo nell’immaginario collettivo lo scenario di un incubo senza fine.
Certo fu Mussolini a dichiarare la guerra, ma gli italiani lo seguirono convinti che con pochi sacrifici avrebbero ottenuto grandi risultati. L’opportunismo (di cui il “particulare”, il trasformismo, l’arrivismo e l’improvvisazione sono le varianti più note), purtroppo, è una tara culturale difficile da eliminare che può, nella fretta di non perdere l’occasione, condurre un’itera nazione nell’abisso dell’eterna sconfitta.