Eppur si muove. Mentre l’euro torna sui minimi degli ultimi 2 anni sul dollaro (e da inizio 2011 sullo yen), le borse europee azzerano i rialzi mattutini (in scia al calo di Wall Street a cui non piacciono dati macroeconomici meno positivi del previsto pubblicati in giornata) e sull’obbligazionario il Btp decennale guida vede il rendimento scivolare al 5,91% (un paio di punti base meno di ieri), ma lo spread su Bund risalire al 4,70% (dal 4,67% della vigilia) a causa di tassi che toccano nuovi minimi storici sul titolo tedesco, in cui continua a rifugiarsi la liquidità in uscita dai mercati periferici europei, il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi torna a spronare le autorità politiche Ue perché agiscano con maggiore risolutezza per porre fine alla crisi del debito sovrano europeo puntando sulla crescita e varando un’unione bancaria che preveda uno schema comune per la garanzia dei depositi, un fondo di intervento in caso di crisi e la centralizzazione di una parte delle funzioni di vigilanza. Detta così la crisi sembra rimanere in un loop che a giorni alterni ripropone motivi di speranza e di preoccupazione senza mai variare lo scenario, eppure qualcosa si muove ad esempio nel settore creditizio. Dopo la franco-belga Dexia è la spagnola Bankia a rivelarsi “sostanzialmente insolvente” per parafrasare le parole del capo strategist dei Lloyds, Charles Diebel (secondo cui l’intera Spagna sarebbe “effettivamente insolvente”), il che non è certo una buona notizia ma almeno elimina un’altra “banca zombie” dall’elenco di quegli istituti che il membro tedesco del board della Bce, Jörg Asmussen, vorrebbero fossero sottoposti alla stretta sorveglianza della futura authority di vigilanza europea (per Asmussen dovrebbero comunque esserlo almeno le 25 maggiori banche del vecchio continente, un’indicazione che pare un’apertura da parte delle autorità tedesche alle ipotesi evocate oggi da Draghi). Come pure si muovono in qualche modo le banche, che hanno smesso di comprare titoli di stato italiani e spagnoli da almeno un mese (con gli effetti che tutti abbiamo visto in termini di spread e rendimenti, ma almeno evitando di assumersi ulteriori rischi e ritrovarsi poi in situazioni di dissesto da cui solo un intervento pubblico potrebbe salvarle) e stanno cercando di dismettere quanti più asset “non strategici” possibili e rafforzare per quanto possibile il capitale con mezzi freschi oltre che attraverso l’utilizzo di modelli contabili meno pro-ciclici (e purtroppo per famiglie e imprese continuando nel credit crunch reso del resto inevitabile dal fatto che tuttora gli impieghi sono superiori alle capacità di raccolta degli istituti dei “periferici” del Sud Europa).
Visco in scia a Draghi. In attesa di vedere se si muove anche l’Irlanda (dove è in corso il referendum di ratifica del fiscal compact, la cui eventuale bocciatura riporterebbe la tensione alle stelle, mentre un via libera potrebbe forse allentare i timori degli investitori di un allargamento del “contagio” greco) si muove, in scia a Draghi, pure il suo successore sulla poltrona di Banca d’Italia, Ignazio Visco, impegnato stamane nella lettura delle consuete considerazioni finali dell’istituto centrale e che per l’occasione oltre a rimarcare una previsione decisamente poco positiva per l’economia italiana (il 2012 “non potrà che essere un anno di recessione” ha spiegato il banchiere, con una caduta del Pil “intorno all’1,5%” e una ripresa che “potrà affiorare verso fine anno”) sottolinea come la politica monetaria europea ha preservato il funzionamento dei mercati ed evitato una “restrizione creditizia rovinosa per famiglie e imprese”, ma “non può sanare tutti gli squilibri dell’area euro”, può solo “contenere il contagio”. Per questo la politica “deve assicurare la prospettiva di un rinnovamento profondo, che vada incontro alle aspirazioni dei giovani” (cosa che, come altri colleghi analisti, continuo a sostenere da mesi su queste pagine), mentre le banche secondo Visco debbono rassegnarsi al fatto che lo squilibrio tra impieghi e raccolta rende “difficile” ipotizzare un ritorno ad una crescita della redditività basata solo sull’espansione dei volumi intermediati e dunque sono necessari tagli dei costi a partire dal costo del lavoro, dalle remunerazioni degli amministratori, dalla struttura distributiva e dagli assetti governance. Un modo, forse, per segnalare che la “foresta pietrificata” sta per essere scossa da nuove fusioni e acquisizioni che ne ridisegneranno il volto, sperabilmente aumentandone l’efficienza e l’apertura alla concorrenza, senza troppo guardare al passaporto di chi vorrà mettere capitali freschi (visto che la difesa a oltranza della “italianità” di banche e aziende non ha fatto mai bene a questo paese, nonostante la vulgata populistica continui a raccontarvi il contrario da sempre).
Il Credit Suisse ci crede. Tralasciando di raccontarvi le storie spicciole che tengono banco a Piazza Affari, dai problemi che restano attorno al “salvataggio” di Premafin, Fondiaria-Sai e Milano Assicurazioni (che non ha particolare bisogno di essere salvata, in verità) da parte di Unipol alla commesse per fornire servizi immobiliari all’Inpse vinta da un consorzio guidato da Prelios e Gabetti e che ha messo il turbo alle quotazioni dei due titoli (in particolare di Gabetti, salita del 26% in una sola seduta), vorrei richiamare la vostra attenzione a una nota con cui gli analisti del Credit Suisse hanno ricordato che se nessuno può prevedere i movimenti dei mercati azionari, “come investitori, possiamo scegliere di avvicinarci ad essi in modo negativo, vendendo sui rimbalzi o, in modo costruttivo, utilizzando l’eccesso di liquidità per comprare in debolezza”. Certo, direte voi, se uno di liquidità ne ha poca o nulla che può fare? Niente, solo sperare che l’economia si riprenda e di tornare a vedere qualche flusso di capitali in ingresso sui propri conti (personali o aziendali che siano), è chiaro. Ma se aveste dei capitali a disposizione, forse, anziché congelarli su un conto di deposito a 18 o 24 mesi che vi rende il 3%-3,3% lordo annuo o poco più o su un “rischioso” titolo di stato italiano che può offrirvi attorno al 4,4% lordo sui due anni forse dovreste seguire il consiglio del Credit Suisse e valutare se non sia il caso di comprare azioni o titoli di stato in grado di offrire rendimenti netti superiori all’inflazione (scesa in maggio al 3,2% annuo come ha annunciato l’Istat oggi) senza esagerare col rischio. Potreste farlo investendo in Btp decennali che rendono attorno al 5,9% lordo o in titoli azionari in valuta forte, dal dollaro alla corona norvegese, che abbiano dividendi stabili ed elevati, ad esempio come Statoil (la compagnia petrolifera di stato), Telenor (tra i maggiori gestori di telefonia mobile al mondo), Orkla (multinazionale che offre dai beni di consumo ai servizi finanziari) o Aker Solutions (che offre servizi di ingegneria ai maggiori gruppi petroliferi mondiali).
Buoni motivi. Il perché Credit Suisse sia così “positiva” lo spiegano i loro stessi analisti in un report pubblicato oggi. In primo luogo, la politica della Bce dovrebbe rimanere focalizzata sul tenere assieme l’euro, con o senza la Grecia, “fornendo tutto il sostegno necessario all’Italia, alla Spagna e alle loro banche”. Secondo, dal partito della sinistra estrema greca Syriza giungono dichiarazioni “estreme”, ma è probabile che lo scopo finale sia quello di rinegoziare con successo i termini del piano di salvataggio comunitario, mantenendo la Grecia nell’euro. In terzo luogo, nel tempo vi sono alcuni meccanismi di regolazione automatica che aiuteranno l’economia mondiale “a poco a poco” ad affrontare il deficit di crescita“ che è una causa principale della crisi dell’euro e delle difficoltà di bilancio degli Stati Uniti”.
Un deficit di crescita causato secondo gli esperti, “in ultima analisi dai limiti dell’offerta mondiale di energia, a causa della competizione della Cina e di altri paesi emergenti con gli Stati Uniti e l’Europa per (ottenere) una quantità sostanzialmente fissa di petrolio”. La buona notizia, secondo il Credit Suisse, è che “l’aumento dei prezzi del petrolio, dai 15-30 dollari al barile degli anni Novanta agli oltre 60 del 2005 fino agli oltre 80 dollari al barile dal 2009, ha iniziato a generare una massiccia risposta in termini di offerta”. Le trivellazioni in acque profonde al largo del Brasile e nel Golfo del Messico, le sabbie bituminose in Canada e altre nuove fonti (soprattutto nei paesi stabili) “promettono una nuova era di offerta molto superiore” e a prezzi inferiori agli attuali, mentre lo sfruttamento degli scismi bitumosi negli Stati Uniti si aggiunge a tutto questo, migliorando ulteriormente le prospettive dell’offerta di energia. Anche se gli eventi sembrano ripetersi immutabili da mesi, la crisi potrebbe dunque lasciare spazio a una nuova fase di crescita, che l’Italia potrebbe agganciare se saprà rinnovarsi per tempo, dando spazio ai suoi giovani e tagliando le sue tasse.