I nostri soldi sono al sicuro? Risparmiatori europei sempre più nervosi e pronti a ritirare i propri depositi dalle banche, mentre è partito il conto alla rovescia per il nuovo turno elettorale in Grecia (il 17 giugno) da cui potrebbero uscire rafforzati partiti anti euro e favorevoli a un default, almeno stando alle dichiarazioni rilasciate in questi giorni. Così in Grecia da lunedì le banche hanno già segnalato il deflusso di 1,2 miliardi di depositi, mentre in Spagna Bankia, istituto nato dalla fusione di sei casse di risparmio e fortemente esposto al mercato immobiliare, parzialmente nazionalizzata la scorsa settimana, ha segnalato un deflusso di un miliardo di euro di depositi dall’annuncio del provvedimento. In valore assoluto si tratta di cifre ancora ininfluenti: in Grecia (dove già nell’aprile del 2010, quando la crisi del debito sovrano di Atene portò all’annuncio di un primo piano di aiuti internazionali da parte della “troika” Ue-Bce-Fmi, si registrò in un mese un deflusso di oltre 10 miliardi di euro di depositi) i fondi prelevati da inizio settimana rappresentano meno dello 0,75% del totale dei depositi bancari, mentre nel caso di Bankia siamo a meno dell’1% degli oltre 204 miliardi di depositi registrati a fine marzo). Ma il timore di un contagio anche ad altre banche spagnole, portoghesi o finanche italiane (nonostante le rassicurazioni di rito di Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi, che peraltro ha segnalato un calo dei depositi esteri presso banche italiane) porta da un lato gli investitori a vendere la maggior parte dei titoli percepiti come più esposti al rischio o maggiormente bisognosi di nuovi capitali (come Mps, di cui lo stesso Mussari è stato presidente fino alla nomina, il 27 aprile scorso, di Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di UniCredit), dall’altro mette anche questa vicenda sotto la luce dei riflettori mediatici rischiando di indurre molti risparmiatori a ritirare i propri depositi per il timore che possa accadere qualcosa di irreparabile, facendo in parte auto-avverare la previsione. Chiariamo subito: personalmente non credo che ci troveremo di fronte a un assalto agli sportelli né che i risparmi degli italiani siano a rischio se lasciati in banca. Non più a rischio, almeno, che se venissero prelevati e murati nei muri o nascosti nel materasso, perché in caso del più drammatico dei possibili esiti della crisi, la morte del’euro come lo conosciamo oggi ovvero l’uscita di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia dalla valuta unica, sarebbero pressochè certe alcune reazioni automatiche come: svalutazioni competitive delle “nuove” valuta nazionali rispetto ad un euro che sarebbe sempre più simile al vecchio marco tedesco (ma anche rispetto al dollaro, valuta utilizzata per gli scambi internazionali e in particolare per gli acquisti e vendite di materie prime), balzo dell’inflazione (appunto tramite un violento aumento del costo delle importazioni energetiche e di altre materie prime), ulteriore incremento della disoccupazione per il contrarsi dei consumi interni che solo a medio termine potrebbe (forse) essere compensato da un’espansione delle esportazioni (che peraltro non è detto siano costituite tutte da beni prodotti sul territorio nazionale). Ma certamente la tensione va aumentando e occorre tenerne conto.
Che farà la Bce? Punto centrale per capire come andrà a finire resta da un lato la Bce, dall’altro gli eventuali accordi che potranno essere presi sia tra partner europei (ieri Francois Hollande e Angela Merkel si sono incontrati e si sono detti “d’accordo che sia necessario lavorare insieme” per trovare misure supplementari per la crescita che affianchino quelle di rigore fiscale, auspicando “che la Grecia voglia rimanere nell’euro”, ma non sono state annunciate misure concrete) e mondiali (le attenzioni si incentrano sul G8 a Camp David il 18 e 19 maggio (dove americani e probabilmente francesi faranno ulteriori pressioni sulla Merkel per aiutare la Grecia) e il G20 di giugno in Messico (che potrebbe rappresentare secondo molti operatori e analisti il vero punto di svolta della crisi europea del debito se dovessero essere annunciate misure concrete in grado di rafforzare i firewall europei e ridare fiato alla crescita del vecchio continente). Nel frattempo Mario Draghi ha ribadito che la Bce non intende sacrificare neppure sull’altare della permanenza della Grecia nell’euro alcuni “principi chiave” della banca centrale europea, a partire da quello per cui alle operazioni di rifinanziamento vengono ammesse solo banche solvibili. Così dopo una prima fuga di notizie “ufficiose” in serata ieri è arrivata una mail ufficiale con cui Eurotower ha ammesso di aver sospensione “temporaneamente” sospeso la fornitura di liquidità ad alcune banche greche per limitare i propri rischi, in quanto le banche stesse non sono riuscite a garantire finora la necessaria ricapitalizzazione. Una ricapitalizzazione che potrebbe giungere a giorni, se come pare l’Efsf (il fondo “salva stati” europeo) sbloccherà i fondi previsti (18 milioni di euro) nell’arco dei prossimi 3-4 giorni: nel frattempo la sopravvivenza degli istituti è affidata al fondo di liquidità di emergenza della banca centrale greca. Come in una partita a scacchi, dunque, alla “strategia della tensione” che da qualche tempo sembra essere stata scelta da Atene come ultima risorsa per evitare il collasso definitivo di un’economia stremata da un rigore forse giusto nel principio ma sicuramente sbagliato nei tempi e nei modi, anche la Bce risponde alzando la tensione, ma secondo molti è pronta al peggio ossia ad usare “misure non convenzionali” che potrebbero consistere in un ulteriore taglio dei tassi già a inizio giugno, in una terza Ltro straordinaria con la quale innaffiare ulteriormente di liquidità a lungo termine il mercato (dopo aver già stanziato oltre mille miliardi di euro per circa 800 banche europee con le prime due operazioni di dicembre e febbraio scorsi) e, ultimo ma non meno importante, con la rottura di ogni definitiva resistenza all’acquisto senza limiti di importi di titoli greci, portoghesi, italiani e spagnoli. Vorrebbe dire per la Bce trasformarsi de facto (ma non di diritto) in un prestatore di ultima istanza, cosa che la Germania finora ha tenacemente contestato. Ma la Germania, notano alcuni, nella sua storia ha quasi sempre perso le sfide finali, sia calcistiche sia economiche o politiche, per non dire militari, e potrebbe preferire un compromesso che tenga in piedi l’euro, garantendo un vantaggio competitivo alle proprie esportazioni rispetto all’ipotesi di un ritorno al “marco forte”, all’Armageddon.