Brivido a fine giornata per i mercati azionari europei, Milano compreso, che riducono fortemente i guadagni visti nel corso della mattinata dopo che il Fondo monetario ha annunciato l’interruzione delle trattative tecniche per un accordo che garantisca nuovo sostegno finanziario alla Grecia, a causa del fatto che ci sono “ancora ampie divergenze” con Atene, in particolare su temi come la lotta all’evasione e la riforma previdenziale. Il portavoce del Fondo ha peraltro sottolineato che sebbene il team di tecnici del Fmi abbia lasciato Bruxelles, dove si sono svolti i colloqui con le controparti greche, il Fondo stesso rimane “pienamente impegnato” con Atene.
Chi si aspettava una risposta da parte di Atene (il cui premier, Alexis Tsipras, ieri sera ha incontrato sempre a Bruxelles Angela Merkel e Francois Holland e in giornata doveva incontrare il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker) che spiegasse come sono andate le cose è rimasto deluso: la nota del portavoce del governo greco, Gabriel Sakellaridis, ribadisce piuttosto che il governo greco sarebbe pronto a raggiungere “presto” un accordo con i creditori e vorrebbe anzi “intensificare” le trattative su temi del bilancio e del debito pubblico “al fine di chiudere presto un accordo, anche nei prossimi giorni” e “per questa ragione continuerà a lavorare sulle questioni rimanenti, come quella fiscale e quella della sostenibilità del debito”.
Ma di pensioni e lotta all’evasione non se ne parla e siccome gli accordi si fanno in due è una pia illusione pensare che come d’incanto domattina tutto sarà risolto. Così il conto alla rovescia prosegue inesorabilmente e se il 30 giugno Atene non troverà con qualche escamotage il modo di rimborsare 1,4 miliardi di euro di prestiti al Fmi potrebbe nuovamente venire dichiarata in default, eventualità che per la verità Standard & Poor’s (che stamane ha ridotto ulteriormente da “CCC+” a “CCC-” il rating sovrano greco), ritiene possibile, ma nell’arco dei prossimi 12 mesi, in caso di mancato accordo coi creditori internazionali.
A questo punto della vicenda una sola cosa è inconfutabile, ossia che entrambe le parti hanno compiuto errori che sarà importante evitare di ripetere. Anzitutto un passo indietro: come ricorda un’analisi del professor Paolo Manasse, ordinario di economia politica all’università di Bologna, pubblicata su Econopoly (Il Sole 24 Ore), la crisi odierna di Atene è dovuta allo scoppio di una “bolla” in cui l’economia greca è finita dopo l’ingresso dell’euro, poiché una crescita drogata della domanda, finanziata dal debito, non era basata su una parallela crescita della produttività.
Con la crisi finanziaria del 2008, quella del debito era ormai innescata: la conseguente “cura letale” imposta dai creditori internazionali ha peggiorato le cose, portando Pil reale, salari reali e costo del lavoro in Grecia a livelli pre-euro, con un processo di aggiustamento reso ancora più severo e doloroso del necessario sia perché attuato tagliando in modo fin troppo rigido e rapido la spesa pubblica (in parallelo a una ristrutturazione tardiva e parziale del debito), sia perché l’ordine con cui le riforme strutturali sono state imposte (e varate) era ed è fondamentalmente sbagliato. Come spesso ricordato anche da altri economisti come Mario Seminerio, infatti, non si può riformare sotto le bombe.
A una conclusione analoga pare essere arrivata anche la Corte dei Conti italiana, sempre più scettica sull’effettiva portata della “spending review” e sempre più convinta che per ridurre tangibilmente la pressione fiscale serva un “ambiente macroeconomico espansivo”. Ma cosa è andato storto in Grecia? In sostanza se durante gli anni dell’euro-boom (dal 2000 al 2007), il tasso di crescita del Pil greco è stato pari in media al 4,13% annuo (contro l’1,88% medio del decennio “pre euro” 1990-1999), principalmente grazie agli investimenti , la caduta altrettanto violenta dopo il 2008 (la variazione del Pil tra il 2008 e il 2013 è stata pari al -4,45% annuo) è stata in larga parte dovuta alla perdita di posti di lavoro.
Cose che capitano a paesi che crescono accumulando forti divari di competitività: rispetto alla Germania la Grecia ha accumulato un divario in termini di produttività totale del 23% tra il 1990 e il 2007. In quello stesso periodo l’Italia ha a sua volta accumulato un divario di produttività attorno al 20%, ma mentre tra il 2008 e il 2013 il divario, pur non chiudendosi, si è mantenuto pressoché costante tra Italia e Germania (più per “demerito” di Berlino in verità che non per miracolose virtù italiche, ma tant’è), quello tra Grecia e Germania è ulteriormente aumento, arrivando quasi a raddoppiare. La “cura tedesca” ha imposto e accentuato (come visto anche in Italia) un arresto improvviso della domanda, accompagnato da una svalutazione in termini reali.
Impossibilitata, a differenza dell’Italia, ad accedere ai mercati finanziari per rifinanziare il proprio debito pubblico (la leva che era servita ad alimentare il boom nei primi sette anni di appartenenza all’euro), la Grecia ha subito una stretta violenta della spesa sia pubblica sia privata. Le esportazioni, che secondo il paradigma tedesco avrebbero dovuto fungere da ammortizzatori durante la caduta verticale della domanda interna, non sono salite più di tanto, anzi sono cresciute meno di quelle degli altri paesi europei, compresi paesi come Spagna, Irlanda e Portogallo che stavano a loro volta affrontando programmi di ristrutturazione dei conti pubblici.
Del resto le aziende greche sono di piccola dimensione, faticavano anche prima della crisi ad avere accesso ai mercati internazionali, si concentravano su beni a basso contenuto tecnologico, per lo più rivolti a partner finiti a loro volta in recessione, subivano una burocrazia opprimente che ostacolava di fatto le esportazioni e si sono trovate dalla mattina alla sera del tutto prive di credito bancario. Risultato: senza nessun tipo di “ammortizzatore” e pressati da una politica miope delle autorità europee e dello stesso Fmi, l’economia greca è collassata, la povertà aumentata, la disuguaglianza sociale anche.
Uno scenario che avrebbe dovuto far riflettere la “troika” almeno sull’ordine da seguire nelle richieste di riforme “strutturali”, ma così non è stato. Focalizzandosi sulle riforme del mercato del lavoro anziché su quelle dei mercati dei prodotti (come per certi versi accaduto anche in Italia, dove però i mercati erano stati già almeno in parte aperti alla concorrenza negli anni precedenti alla crisi), le riforme adottate da Atene su pressione della “troika” hanno finito col causare un marcato calo dei salari nominali cui non si è accompagnata una parallela riduzione dei prezzi di beni e servizi. La domanda interna è crollata, la domanda estera non è ripartita, la disuguaglianza è aumentata.
Per non ripetere lo stesso errore, secondo Manasse, occorrerebbe ora che il necessario ulteriore aggiustamento dei conti pubblici venisse “spalmato” su un tempo superiore a quello finora previsto, riducendo dal 3% a non più dell’1,5% annuo l’avanzo primario che il paese si impegna a conseguire (del resto su questo punto ha ragione l'esuberante ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, quando dice che uno sforzo notevole è già stato fatto: tra il 2009 e il 2012 la Grecia ha registrato un miglioramento del saldo di bilancio primario di circa 9 punti percentuali di Pil. Nessun altro paese europeo e pochi al mondo in tutta la storia hanno mai fatto altrettanto).
Sarebbe poi necessario puntare ad eliminare anzitutto le barriere all’ingresso nei mercati dei prodotti e di esportazione, ridurre la burocrazia, eliminare i vincoli al credito per le piccole e medie imprese, rendere più efficiente l’amministrazione fiscale. Solo a quel punto si potrebbe varare, gradualmente, una riforma pensionistica, che pure è necessaria, così da non “ammazzare” ulteriormente i consumi a causa di crescenti incertezze sul reddito futuro. Dalla Grecia giunge, anche l’Italia, una severa lezione: sapranno prenderne atto sia Atene sia gli altri pesi membri di Eurolandia e lo stesso Fmi?