La ricreazione è finita. Non che si potesse sperare in più che un rimbalzo dopo i risultati elettorali di domenica in Francia e Grecia, ma con la reazione dei mercati finanziari odierni (borse europee in calo, sui minimi degli ultimi 4 mesi ma con Atene crollata a livelli che non si vedevano dal 1992, Wall Street nervosa, Bund spinti su nuovi minimi storici dei rendimenti da una valanga di liquidità in cerca di un riparo “sicuro”, spread contro Btp e altri titoli di stato dei “periferici” di nuovo in allargamento, per l’Italia sul 3,91%) e più ancora i commenti di numerosi analisti, gestori e investitori hanno fatto capire che il tempo è ampiamente scaduto per la ricetta tedesca fatta di solo rigore fiscale. Il che può comportare qualche problema a breve termine, se è vero che Paul Taylor, capo analista dell’agenzia di rating Fitch, in un’intervista all’edizione online di Der Spiegel non esclude un nuovo default di Atene ed anche l’uscita della Grecia dall’euro, un tema “taboo” solo fino a poche settimane or sono. Attenzione però: per Taylor (che non è l’unico a iniziare a parlare apertamente di uno “spezzatino” dell’eurozona) l’eventuale addio di Atene all’euro non ne comporterebbe la fine: “Dopo tutto – ha spiegato l’analista in un’intervista all’edizione online di Der Spiegel – la Germania ha un interesse fondamentale a garantire la sopravvivenza della valuta unica. Se il marco tedesco dovesse essere reintrodotto questo avrebbe un maggior valore rispetto ad altre valute forti (rispetto al valore che ha oggi l’euro, ndr). Il che significa che l’export, il motore dell’economia tedesca, ne uscirebbe danneggiato”. Cosa che la Germania, conclude Taylor, non ha alcun interesse a lasciar accadere, “anche se uno o più paesi dovessero lasciare l’area della valuta unica”. Che l’asse franco-tedesco sia ormai morto e sepolto, tanto più dopo gli ultimi risultati elettorali, ne è convinto anche il premio Nobel americano per l’economia, Paul Krugman, che dalle pagine del sito del New York Times ribadisce che a quella del rigore a tutti i costi è una ricetta sbagliata che non funziona, nonostante la vulgata comune sostenga l’opposto, neppure nel caso della “virtuosa” Irlanda, la cui economia non si sta affatto riprendendo. Tanto meno servirà per Portogallo, Grecia e per l’intero Sud Europa conclude Krugman secondo cui vi sarebbe dunque il concreto rischio di rompere l’euro, evento che sarebbe “altamente distruttivo e rappresenterebbe una pesante sconfitta per il “progetto Europeo” di promuovere a lungo termine pace e democrazia attraverso una maggiore integrazione”.
Rigore su tempi lungo e spazio alla crescita. Ma c’è un’altra via per cercare una soluzione alla crisi dell’euro, che va ricordato è una crisi di fiducia rispetto alla quale la stessa Bce (che con le due operazione di rifinanziamento a lungo termine è riuscita a evitare il peggio ma non a restaurare la perduta fiducia degli investitori nella capacità delle autorità europee di gestire la crisi) sembra per ora impotente? Sì, risponde Krugman, “e la Germania ha già mostrato che può funzionare”, solo che i politici tedeschi mostrano di non aver compreso la lezione. Anziché insistere in misure unilaterali di rigore fiscale per il Sud Europa, Berlino dovrebbe concedere più tempo ai suoi partner e lasciare perseguire politiche più espansive in ogni campo, “lasciando in particolare cadere l’ossessione della Banca centrale europea riguardo l’inflazione e spostare il focus sulla crescita”. Né la Germania né i vertici della Bce, conclude l’economista, sembrano gradire questa prospettiva, ma i risultati elettorali di Parigi e Atene non sembrano lasciare loro molte altre scelte “e questo, che ci crediate o meno, significa che l’euro e il progetto europeo hanno ora maggiori probabilità di sopravvivere di quante non ne avessero ancora pochi giorni or sono”. Elettori non solo più democratici ma anche più “intelligenti” e lungimiranti dei massimi vertici delle autorità europee, dunque, che saranno costrette anche per Nouriel Roubini (economista celebre per aver correttamente predetto l’esplodere della crisi finanziaria del 2008 e per aver messo in guardia dal rischio dell’emergere di una seconda fase recessiva fin dallo scorso anno) a piegare il capo, in particolare concedendo nuovi tagli dei tassi e un allentamento della lotta all’inflazione in favore di misure più orientate alla crescita come sembra voler chiedere Hollande e come potrebbe cercare di rinegoziare il nuovo esecutivo greco, qualunque esso sia e quantunque venga formato. Facile a dirsi, difficile a far digerire da un lato ai contribuenti tedeschi (anche se il consenso pro-euro è molto più solido in Germania che negli altri paesi europei, il che non deve stupire visto che a Berlino le riforme che ora si individuano come necessarie, e lo sono, a far recuperare competitività e dunque credibilità agli occhi degli investitori sono state fatte oltre dieci anni fa) dall’altro ai mercati, perché inevitabilmente un nuovo default greco, con o senza l’uscita di Atene dall’euro, ovvero un’ulteriore rinegoziazione (per quanto in parte già prevista da numerosi osservatori fin dallo scorso marzo) dei termini in base ai quali sono stati concessi gli aiuti dalla “troika” Ue-Bce-Fmi alla Grecia richiederebbe agli investitori di farsi nuovamente carico di ulteriori costi, cosa che potrebbe non piacere in particolare alle banche francesi, ancora molto esposte verso la Grecia (cosa che richiederà dunque ulteriori sforzi per rafforzarne il patrimonio così da sostenere eventuali nuove svalutazioni).
Monti ci ripensa ancora una volta. Se si pensa che nel frattempo anche la Spagna deve affrontare la ristrutturazione di un sistema creditizio ancora troppo esposto verso il settore immobiliare, la situazione resta a dir poco ingarbugliata, tanto che non stupiscono più neppure le continue giravolte dei capi di governo europei tra cui Mario Monti, che lo scorso 21 aprile parlava di “segnali di ottimismo e speranza” mentre oggi parla di uno “stato dell’economia italiana drammatica” e imputa ai governi che l’hanno preceduto lo stallo in cui si trova il paese sottolineando come “le conseguenze umane della crisi dovrebbero far riflettere chi ha portato economia in questo stato”. Gli elettori sembrano averlo capito benissimo, in verità, speriamo ora anche il governo e il parlamento (nonché l’intera classe politica europea) capiscano che è ora di misure concrete per liberalizzare il mercato, tagliare le spese superflue, gestire meglio quelle necessarie a tutelare le fasce più deboli della popolazione e promuovere costantemente il rinnovamento della nostra classe imprenditoriale e dirigente (dalle maggiori banche e imprese alle più piccole aziende familiari). Rispetto al quadro europeo infatti quella italiana è una crisi in gran parte legata a problematiche culturali: o la cultura italiana si rinnova drasticamente (dal sistema formativo all’economia, dalla casta politica alla gestione dei rapporti aziendali, dal mondo del credito a quello delle Pmi) ed entra a pieno titolo nel XXI secolo, o cercare di restaurare soluzioni e modelli sociali e competitivi del secolo scorso non porterà ad altro che a un prolungato stato di crisi strisciante e all’ulteriore fuga di capitali e talenti dal Belpaese verso nazioni più ospitanti e dalle migliori prospettive, in buona misura in Asia sospetto.