Mentre i mercati si compiacciono dei buoni risultati ottenuti anche oggi dalle aste di titoli di stato a breve termine da Spagna, Grecia e Efsf (che ha appena visto Standard & Poor’s tagliare il rating sulle emissioni a lungo termine da “AAA” a “AA+”, mantenendo peraltro invariato il merito di credito sui titoli a breve termine) e i titoli di stato italiani vedono calare nuovamente rendimenti e spread coi Bund tedeschi, la Banca d’Italia nel suo ultimo Bollettino Economico ricorda a tutti che l’incertezza “sui modi di gestione della crisi a livello comunitario e in sede di coordinamento intergovernativo, nonostante le importanti correzioni degli squilibri di finanza pubblica operate dai governi nazionali” ha concorso “ad alimentare l’incertezza il peggioramento delle prospettive di crescita”, cui è corrisposto un incremento dell’avversione per il rischio e la preferenza per strumenti ritenuti sicuri. Per chi volesse a tutti i costi vedere rosa per “non darla vinta ai gufi” come alcuni peraltro coraggiosi e simpatici commentatori in rete provano a fare, sottolinea: “l’aggravarsi della crisi del debito sovrano e i segnali di rallentamento internazionale determinano un peggioramento delle prospettive di crescita, sia in Italia sia nell’area dell’euro”.
Insomma, la normalizzazione dei mercati resta cruciale: “Nell’ipotesi di rendimenti dei titoli di Stato fermi per un biennio alla configurazione dell’inizio di gennaio, il Pil si ridurrebbe dell’1,5% nella media di quest’anno; l’attività economica tornerebbe a crescere solo nel corso dell’anno prossimo”. Vi è inoltre il rischio “che un peggioramento delle aspettative, che determini un ulteriore inasprimento delle condizioni dei mercati del debito sovrano e del credito, possa portare a una flessione più accentuata”. Cosa potrebbe rassicurare i mercati, facendo così contenti i sostenitori del partito che non vuol darla vinta agli “sciacalli” e a chi vede sempre e solo nero? Bankitalia lo dice senza troppi giri di parole, “è importante che sia reso rapidamente operativo il rafforzamento degli strumenti europei per la stabilità finanziaria, quali L’Efsf e l’Esm, aumentandone l’efficacia e sfruttandone tempestivamente le potenzialità”. Cosa che ancora non è detto la Germania sia disposta a fare, insistendo tuttora su un “nuovo patto fiscale” che alcuni iniziano a pensare possa almeno a breve portare più guai che soluzioni.
L’Italia purtroppo non ha molte carte da giocarsi, con la tragica vicenda della Costa Concordia (o, in campo finanziario, il “salvataggio” di Fondiaria-Sai da parte di Unipol passante per Premafin a costi nettamente superiori a quelli di mercato solo per garantire le banche creditrici UniCredit e Mediobanca oltre che la famiglia Ligresti) che sembrano il fedele specchio di un paese sotto shock, in cui chi dovrebbe esercitare ruoli di leadership pare smarrito e non in grado o non aver voglia di assumersi le proprie responsabilità delegando ad altri gli oneri, salvo magari, in ambito politico, lagnarsi per la scarsa “democraticità” delle manovre varate dagli esecutivi tecnici insediati “a furor di mercato” dopo vent’anni di totale inadempienza dei governi precedenti.
O forse sì, visto che come ricorda sempre Bankitalia le tre manovre varate dall’Italia nel 2011 “dovrebbero assicurare nel 2013 un avanzo primario nell’ordine del 5% del Pil” e dunque Mario Monti fa bene a insistere con Angela Merkel perché smetta di far finta di non capire cosa il Su Europa e le agenzie di rating stanno chiedendo: una maggiore flessibilità tattica al posto di una rigidità che solo teoricamente può essere la panacea di tutti i mali ma si scontra con tempi incompatibili con quelli dei mercati come ho provato a ricordare altre volte. Tuttavia per essere credibile l’Italia dovrà agire in profondità sulla qualità della sua spesa prima ancora che sulla sua grandezza, il che significa spendere meno ma soprattutto spendere meglio.
E qui casca l’asino perché ad oggi troppe volte chi decide la spesa (sia nel pubblico sia nel privato) non si cura dell’efficienza della stessa ed anzi a volte ha convenienza a “mal gestire” perché a fronte di rischi limitati di perdere il posto può ottenere “favori” in cambio, sia che sia un funzionario pubblico sia un manager privato, sia un banchiere. Per contro anche chi approfitta della “generosità” dello stato o delle grandi aziende non ha stimoli a cercare di offrire servizi e prodotti competitivi, né ad investire in innovazione e ricerca ma solo a rafforzare il suo sistema di relazioni, scaricando poi il costo delle proprie inefficienze sui clienti a fronte di mercati che non scontano se non in rari casi situazioni di perfetta concorrenza. In questo senso la levata di scudi delle mille piccole e grandi corporazioni italiane è forse più deleteria agli occhi dei mercati che non la modifica del rating attribuito da una singola agenzia e per questo nonostante il cambio del governo rendimenti e spread dei titoli di stato italiani faticano a ridursi significativamente se non entro l’orizzonte dei tre anni (che è poi quello controllato a vista dalla Bce).
Ultima ma non meno importante considerazione per gli amici che vogliono cercare di vedere rosa e pensano forse che una svalutazione dell’euro (se non proprio l’uscita dell’Italia da Eurolandia e il ritorno alle nostre “amate lire”) potrebbe ovviare facendoci recuperare un minimo di competitività: è vero, ma non potrà mai avvenire in termini significativi e il perché è presto detto (come da tempo ricorda il mio ex collega gestore Mario Seminerio sul suo blog Phastidio): a guadagnarci sarebbero le esportazioni e chi più della Germania ci guadagnerebbe? Solo che la Germania non ha i problemi di squilibrio dei conti dell’Italia e non può sperare nell’accondiscendenza degli Stati Uniti tanto più in un anno elettorale come questo in cui ogni rallentamento della crescita dovuto a un’eccessiva forza del dollaro (che già a novembre ha fatto rialzare il deficit della bilancia commerciale Usa) rischia di costare posti di lavoro e quindi voti a Barack Obama e dunque non vi sono alternative: la Germania dovrà concedere qualcosa di più a breve termine (chiedendo ulteriori impegni nel lungo periodo ai paesi del Sud Europa, Italia compresa) o andarsene per la sua strada.
Che sia questo il paese cui accennava stamane Klaus Regling, economista tedesco a capo del fondo salva stati Efsf, quando ha dichiarato che “se le cose dovessero andare terribilmente male” un paese “potrebbe lasciare l’eurozona”? E pensare che tutti, maliziosamente, hanno pensato alla Grecia e alle sue problematiche trattative con le banche per trovare il modo di non dover dichiarare un default sui titoli di stato che Fitch, con grande “ottimismo”, prevede sarà inevitabile già nel prossimo marzo quando Atene potrebbe non essere in condizioni di pagare la cedola sui bond scadenza marzo 2020.