Nel primo decreto di Luigi Di Maio da ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico troverà posto anche un provvedimento contro il gambling (il “gioco d’azzardo”, anche se la definizione non sarebbe del tutto corretta), che si concretizzerà essenzialmente nel divieto di fare pubblicità per le aziende del settore e con alcune limitazioni, di concerto con i Comuni e le Regioni, sulle aperture di sale slot, centri scommesse eccetera. Il leader del Movimento 5 Stelle ha spiegato come non si tratti di una misura proibizionista, dal momento in cui si vieta “la pubblicità a un prodotto o servizio, non il prodotto in se”, argomentando: “La logica che viene applicata è quella che ha portato al divieto della pubblicità sulle sigarette. Non è stata vietata la vendita, ma la sua sponsorizzazione e la strategia ha funzionato […] La martellante pubblicità sul gioco d'azzardo, anche utilizzando testimonial ultra famosi, ha come effetto un generale aumento del desiderio di giocare d'azzardo, causando anche un indiretto aumento delle giocate non autorizzate”.
La versione delle aziende è molto diversa, anche nella consapevolezza dei danni al settore che misure del genere certamente arrecherebbero, finendo per favorire il gioco illecito e non controllato. Di Maio, però, tiene il punto e utilizza due argomentazioni “centrali”: l’azzardopatia è un fenomeno che riguarda un milione di famiglie e le entrate fiscali che derivano dal gioco vengono quasi completamente assorbite dai costi sociali dell’azzardopatia. Si tratta di questioni complesse, che non possono essere affrontate senza una preliminare considerazione sui dati, sulla reale consistenza del fenomeno.
Di che stiamo parlando?
Nella scorsa legislatura, il Parlamento ha approvato la relazione sulle infiltrazioni mafiose e criminali nel settore del gioco lecito e illecito approntata dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie. La cosa è passata piuttosto sotto silenzio e forse è finanche un bene, considerando quanto sia parziale e disinformata la copertura dei media relativamente alla questione del gambling, di cui sostanzialmente si parla solo a uso e consumo della propaganda politica. Il documento finale, però, ci consente di avere dati puntuali e aggiornati sul fenomeno di cui stiamo parlando: quello del "gioco lecito", ovvero autorizzato dallo Stato e riconducibile e a tutte le attività dei Monopoli.
Il settore dei giochi conta circa 6600 imprese, 200mila occupati e complessivamente la raccolta annua supera gli 80 miliardi di euro, mentre il gettito erariale prodotto supera gli 8 miliardi di euro l’anno. Le cifre sono stabili da qualche anno, considerando i dati del triennio 2014-2016 è possibile fare queste stime approssimative per il gioco in un singolo anno (in miliardi di euro, relativi alla “raccolta”):
- Lotto 7
- Gratta e Vinci 9
- Giochi numerici a totalizzatore 1
- Scommesse sportive e Totocalcio 4
- Scommesse ippiche 0,6
- Scommesse virtuali 1
- Betting Exchange 0,4
- Newslot 24
- Videolottery 20
- Bingo 1
- Giochi online 12
- Totale 80
È importante sottolineare come dire "gli italiani perdono più di 80 miliardi di euro nel gambling" sia FALSO. Le cifre di cui stiamo parlando si riferiscono alla raccolta, che è l’insieme delle puntate effettuate in Italia nell’anno solare, dunque contiene anche le cifre vinte ed eventualmente rigiocate; il dato da considerare va sotto il nome di "spesa", ovvero ciò che gli italiani "perdono", e per il 2015 è stata di 17,5 miliardi di euro, mentre nel 2016 è salita a 19 miliardi. FALSO è anche dire che gli italiani "buttano più di un miliardo di euro al mese nelle slot machine", considerando proprio che gli apparecchi elettronici e le slot online in particolare sono tra le tipologie di gioco con la percentuale di restituzione in vincita più alta.
Il contrasto al gioco dei governi precedenti e delle Regioni
Nella scorsa legislatura era stata presentata una legge di riordino dell'intero settore dei giochi, a firma Franco Mirabelli, senatore del Partito Democratico. Mirabelli, in un testo che recepiva il decreto Baretta (e scritto con la “collaborazione” dei Monopoli), puntava a ridefinire la disciplina dei giochi, per quel che concerneva la rete, l’offerta, le concessioni, la tassazione, la pubblicità e il contrasto alla ludopatia, ma la parte principale era riservata alla rideterminazione delle entrate tributarie e ai poteri dell’agenzia delle entrate e dei Monopoli. Una partita decisiva, considerate le cifre in ballo e il controsenso (ve lo avevamo spiegato qui nel dettaglio) in base al quale all’aumentare delle giocate non corrispondesse un proporzionale aumento delle entrate per le casse dello Stato. La legge Mirabelli è sostanzialmente naufragata, ma prima il governo Renzi, poi la conferenza Stato-Regioni hanno profondamente mutato il quadro normativo, impostando già una riduzione di slot e punti gioco, ma contemporaneamente diminuendo la percentuale di restituzione in vincite ai giocatori, a beneficio delle casse dello Stato.
Con la legge di bilancio 2017 del governo Renzi, infatti, sono state approvate una serie di misure specifiche, ad esempio sulle slot, tra cui:
- No nuove slot, ma possibilità di sostituzione delle tradizionali “macchine” con le nuove VLT (videolottery che hanno un volume di gioco di circa 20 miliardi di euro l’anno), che permettono giocate di portata nettamente più alta (le tradizionali slot hanno un costo massimo iniziale per partita di 1 euro e vincita massima di 100 euro, le VLT hanno jackpot anche di decine di migliaia di euro).
- Aumento della tassazione, caricata però sulla “restituzione del giocato”, che ora è al 70%. In sostanza, una slot tradizionale restituiva fino al 78% della cifra giocata (in media 78 euro ogni 100, più correttamente circa 450 euro ogni 600 investiti in un ciclo da14mila a 140mila partite): ora la quota scende al 70%. Modifiche anche alle slot online, che hanno restituzione intorno al 90%.
La Conferenza Stato – Regioni aveva poi deciso di anticipare la riduzione delle AWP e della loro sostituzione con le AWPR, oltre che di dimezzare in tre anni i punti vendita del gioco pubblico. Essenzialmente, dunque, c’è già un piano per passare dai circa 100mila punti gioco attuali a circa 55mila, entro la data ultima del 31 dicembre 2019. La stessa conferenza aveva previsto norme più severe circa l'ubicazione dei punti gioco, prevedendo anche la possibilità per i Comuni di interrompere l'attività degli stessi fino a 6 ore complessive al giorno.
Lo stop alla pubblicità sul gioco voluto da Di Maio
Al momento, per effetto di una norma del governo Renzi, c'è il divieto per le aziende del settore di pianificare pubblicità dalle 7 alle 22, ma è valido solo per le televisioni generaliste e non si applica, ad esempio, ai canali Premium di Mediaset o a Sky. La Rai, inoltre, come scritto nella convenzione con lo Stato, già non trasmette pubblicità di questo tipo.
Mancano ancora i dettagli, ma l’intenzione del governo sembrerebbe essere quella di vietare completamente la pubblicità, come appunto fatto per le sigarette. Il Sole24Ore ha fatto il punto sulle cifre: “L'ultimo studio dell'agenzia Agimeg su dati Nielsen indica che tra gennaio e settembre 2017 la raccolta è stata di 45,9 milioni di euro: +1,8% rispetto ai 45,1 milioni dello stesso periodo del 2016. L'85,7% degli investimenti è stato indirizzato alla Televisione, che ha raccolto 39,4 milioni di euro (+3,8%), ma è la Radio ad aver avuto la crescita percentuale più elevata”.
Se per le televisioni stiamo parlando di cifre importanti, il settore che ne risentirebbe maggiormente è quello sportivo. Sempre il Sole spiega: “In Serie A ben 11 squadre su 20 hanno un partner commerciale legato al mondo delle scommesse. E sono infatti ben 120 milioni all'anno che vengono utilizzati per fare pubblicità attraverso lo sport”. Per non parlare di cartelloni, sponsorizzazioni di altro tipo e iniziative estemporanee legate al mondo del betting online.
Il calo delle entrate e l'azzardopatia
È chiaro che un provvedimento di questo tipo è destinato a determinare un calo tanto per le aziende del settore che per i loro partner commerciali, quanto infine per le casse dello Stato. Il ragionamento di Di Maio è legato però ai costi sociali dell'azzardopatia: in sostanza, ha spiegato, ciò che lo Stato incassa viene comunque speso per i costi sociali legati all'assistenza delle famiglie e delle vittime del gioco d'azzardo. In realtà, la tesi di Di Maio trova solo un parziale riscontro nei dati e rende urgente una riflessione più ampia sull'intero settore del gioco in Italia.
Cominciamo col dire che è molto complicato stabilire con precisione quanti siano i “malati di gioco in Italia”, come spiega l’indagine effettuata nel 2015 dal Dipartimento delle Politiche Antidroga: “Non vi sono dati statistici completi ed esaurienti sulle persone che soffrono di questo disturbo, anche perché il confine tra il comportamento fisiologico, che viene cioè considerato come attività ricreativa e piacevole ed accettato socialmente e quello francamente patologico, non è sempre ben delineato”. Il DPA aveva provato a fare dei sondaggi a campione, parlando di un 39 percento di “giocatori sociali”, un 7% di “giocatori problematici” e circa un 3% di giocatori patologici; grande attenzione, in questa e in altre analisi, era stata riservata alla popolazione giovane, più esposta al gioco d’azzardo, anche per la facilità dell’accesso al gambling online. Stando ad analisi successive del DAP i giocatori d’azzardo patologici “oscillano fra i 300 mila e il milione”, cifra quantificata in 800mila dall’Osservatorio sul fenomeno della dipendenza da gioco della Regione Toscana. La questione è complessa, anche perché spesso l'approccio, sanitario e della politica, segue spesso logiche discutibili, determinate dalla poca conoscenza dell'argomento.
A fronte di queste cifre, però, bisogna ricordare che le persone che sono attualmente assistite dai servizi per il gioco d'azzardo patologico sono poco più di 12mila. Ma non solo. Perché al momento, lo Stato spende “50 milioni di euro annui per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d'azzardo” (c'è un Osservatorio al ministero della Salute) e 50 milioni annui per il “Fondo per il gioco d'azzardo patologico-GAP, al fine di garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette”. Il fondo è ripartito su base regionale e tutte le proposte per aumentarne la dotazione (qui una delle Regione Lombardia che prevedeva di portarlo a circa 400 milioni annui) sono state bocciate. Insomma, spendiamo 100 milioni di euro a fronte dei circa 8 miliardi di euro di entrate. In che senso Di Maio parla di uscite ed entrate che si annullano?
Bisogna evidentemente distinguere fra i "costi diretti", che sono essenzialmente quelli di cui abbiamo parlato finora, e i "costi indiretti", che sono riconducibili agli "effetti" del comportamento dei giocatori nella loro vita pubblica e lavorativa. Di Maio fa essenzialmente riferimento al lavoro di Matteo Iori, che ha pubblicato un saggio dal titolo "Azzardopoli", in cui quantificava in una cifra fra i 5,5 e i 6,3 miliardi di euro i costi sociali del gioco d'azzardo, includendo anche 1,9 miliardi di "costi di perdita della qualità della vita". In particolare, i costi sociali sarebbero determinati dal fatto che i giocatori d’azzardo patologici perderebbero circa il 28% della loro capacità lavorativa, con conseguente calo del proprio reddito e del loro apporto sociale, così come aumenterebbero i costi determinati da “violenza, rischio di aumento di depressione grave, ansia, deficit di attenzione, bassa resistenza ad altri tipi di dipendenze, idee suicidarie”, connessi al gioco patologico.
Proprio questa è la contestazione delle aziende a Di Maio, con il responsabile di LeoVegas che chiede: "Ministro Di Maio, lei ha affermato che lo Stato italiano non guadagna nulla dalle entrate erariali provenienti dai giochi e scommesse (le ricordo che le entrate erariali sono state pari a 10,3 miliardi nel 2017), perché reinveste gli stessi soldi per curare la ludopatia. Può fornirci questi dati ufficiali? Può dirci quanto spende effettivamente lo Stato e quante sono le persone in cura per ludopatia?”
In ogni caso, tali cifre restituiscono il senso di quanto il gioco d'azzardo sia impattante per il tessuto sociale italiano, anche in considerazione del fatto che la propensione al gambling è maggiore per i giovani, gli individui meno scolarizzati e quelli appartenenti alle fasce reddituali più basse. Ma è bene considerare che parlare di "somma zero" fra entrate e uscite non è corretto, proprio perché non si tratta di cifre che è possibile mettere sul piatto della bilancia. Inoltre, non è possibile dire con certezza se il prevedibile calo delle entrate dovuto allo stop alla pubblicità si tradurrà in un calo dei "costi sociali" del gioco, anche considerando la possibile crescita del ricorso al gioco illegale, un settore che già vale circa 10 miliardi di euro secondo alcune stime.