Cosa significa il fatto che in Italia non esista ancora il reato di tortura
Pochi giorni fa il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ricevuto la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e l'avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, che gli hanno consegnato le 200 mila firme raccolte con una petizione su Change.org per l'introduzione del reato di tortura entro il 2016. In quell'occasione il Guardasigilli ha ammesso che "un vuoto normativo esiste" e ha detto di augurarsi "di dare una risposta in tempi rapidi sull’approvazione, è una questione che dobbiamo risolvere anche nei confronti della Corte europea di Strasburgo".
Anche quest'anno, insomma, l'Italia celebra il 26 giugno, la data scelta dall'Onu per la giornata internazionale contro la tortura, in un misto tra silenzio e imbarazzo. Nonostante il nostro paese abbia ratificato la Convenzione del 1984, ancora non esiste un reato specifico. La prima proposta risale al 1989, ma è presto naufragata così come è accaduto alle altre che l'hanno seguita, accumulando un ritardo di oramai quasi trent'anni. Il disegno di leggeche in questo momento si trova in parlamento non ha avuto diversa fortuna: approvato dalla Camera in tutta fretta il 9 aprile 2015, due giorni dopo che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per il massacro della scuola Diaz durante il G8 di Genova, si è poi arenato. E questo nonostante il concreto di rischio di nuove condanne in sede europea.
Secondo l'avvocato Michele Passione, autore di uno dei saggi del libro "Per uno stato che non tortura", non si può "non soddisfare l'esigenza di avere un delitto che è previsto dalla maggior parte degli ordinamenti e che tutela diritti che sono inderogabili anche in tempo di guerra, sanciti dalla Convenzione dei diritti dell'uomo". Sul testo depositato in Parlamento, però, ci sono diverse riserve. La legge, è stata oggetto di rimaneggiamenti e modifiche che l'hanno snaturata rispetto alla Convenzione del 1984. Si tratta anzi, secondo l'avvocato Passione, di un testo che "non soddisfa per nulla". A dispetto della sua formulazione originaria, qualifica la tortura come reato "comune" – che può essere commesso da chiunque – e non "proprio", cioè tipico dei pubblici ufficiali. Poi è sparita la condizione di privazione della libertà come aspetto rilevante ed è stato introdotto un dolo specifico – "ottenere informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose". "Il reato di tortura – spiega Passione – dovrebbe anche essere a forma libera, in modo da poter sanzionare ogni condotta esercitata, e non solo quelle poste in essere con violenza o minaccia perché così si lascerebbero scoperte le forme ‘più moderne'. E invece il Parlamento ha per il momento previsto un reato per l'applicazione del quale sarebbe necessario addirittura prevedere la reiterazione delle condotte. Come dire: torturare una volta va bene, poi non più". Inoltre, aggiunge l'avvocato, "nel testo si parla di ‘verificabili traumi psichici' espressi in termini di gravità. Come dire che può esserci una tortura meno grave che va tollerata e una più grave che invece va sanzionata".
Perché le norme che ci sono non bastano
Uno degli argomenti utilizzati negli anni per giustificare il ritardo dell'Italia nell'introduzione del reato di tortura è stato quello che sosteneva che questa fattispecie fosse una previsione superflua e ridondante. Secondo i fautori di questa tesi, insomma, l'ordinamento italiano avrebbe già di per sé gli strumenti adatti a punire chi si macchia di certe condotte. Di questo, ad esempio, è convinta parte degli appartenenti alle forze dell'ordine. Invece il fatto che il reato di tortura non esista non è senza conseguenze, anzi. E lo dimostrano chiaramente gli esiti processuali di diverse vicende di abusi.
Fino a questo momento, davanti a casi di violenze e vessazioni da parte delle forze dell'ordine, sono stati chiamati in causa alcuni articoli riguardanti i delitti contro la persona. Ad esempio l'articolo 582 c.p. sulle lesioni personali. Un reato generico perseguibile a querela della persona offesa, così come quello di percosse. Secondo l'avvocato Passione si tratta di una "batteria di norme totalmente inadeguata". Inoltre, le lesioni hanno pene brevi e conseguenti tempi di prescrizione piuttosto ridotti.
Uno dei casi simbolo in questo senso è rappresentato dal processo sui fatti della Diaz: i reati a carico degli esecutori materiali del massacro sono andati tutti prescritti. Ma non è l'unico esempio. Nel 2012 il giudice Riccardo Crucioli doveva decidere sugli abusi subiti nel 2004 da due detenuti del carcere di Asti. Nella sentenza è stato stabilito che i fatti "potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura": "È provato al di là di ogni ragionevole dubbio che ad Asti vigevano misure eccezionali volte a intimidire e punire i detenuti aggressivi (…) e a "dimostrare" a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a pesanti ripercussioni". Per nessuno dei responsabili, però, si arrivò a condanna. Non esistendo il reato di tortura in Italia, il giudice ha dovuto procedere per reati più lievi, arrivando ad assoluzioni e prescrizioni, dovute, a detta della corte, esclusivamente al fatto che nel nostro paese non esiste il reato, contravvenendo alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.
Quello della prescrizione è uno dei problemi più rilevanti. Secondo l'avvocato Passione, nonostante si tratti in generale di "un istituto di civiltà", il punto è che "per questo tipo di reati l'emersione delle notizie di reato è molto complicata. Perché se una persona è detenuta in un qualunque luogo di privazione della libertà personale, far emergere fintanto che la sua condizione di detenzione permane quello che gli è accaduto è molto complicato. Si ha il timore di essere esposti a ritorsioni, e nel frattempo il tempo scorre. Poi le indagini sono molto complicate perché c'è una protezione che viene fatta attorno a queste vicende per questioni che sono spesso subculturali prima ancora che di altro tipo. E quindi la prescrizione è un approdo molto facile".
Una storia emblematica è quella di Carlo Saturno, morto all'ospedale di Bari dopo una settimana di coma in seguito a un tentativo di suicidio in cella. Era stato arrestato da giovanissimo e rinchiuso nel carcere minorile di Lecce nel 2003. Dalle testimonianze dei reclusi, tra cui anche Carlo, si era aperto un processo su abusi e torture nei confronti dei detenuti nella struttura ad opera di una "squadretta di agenti": "ragazzini denudati e pestati in cella", picchiati fino a far uscire "sangue da entrambe le orecchie", lasciati nudi in isolamento senza materasso tutta la notte. Il gup di Lecce aveva rinviato a giudizio i nove poliziotti imputati e Carlo si era costituito parte civile. Il processo è andato avanti molto lentamente e nel frattempo Saturno è tornato in carcere a Bari, dove si è ucciso in circostanze misteriose. Tra le ipotesi c'è l'istigazione al suicidio. La sua morte è arrivata prima della fissazione dell'ultima udienza del processo: ultima perché nel frattempo era trascorsa la prescrizione. Non esistendo il reato di tortura, le imputazioni avevano tempi piuttosto brevi.
Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, nel libro "La tortura in Italia", scrive che la nozione di tortura contenuta nella Convenzione Onu del 1984 "ha la forza di sanzionare anche fatti che altrimenti non sarebbero punibili dalle normali fattispecie penali di lesioni, percosse e abusi vari. Proprio perché, a differenza degli altri delitti, il bene giuridico offeso dal reato di tortura non è il corpo ma la dignità umana di quel corpo". Questo punto non è senza conseguenze. Durante il G8 di Genova alla Caserma di Bolzaneto, ad esempio, ad alcune ragazze sono state urlate frasi come "Entro stasera vi scoperemo tutte". Scrive Gonnella che "se mai ci fosse stato il crimine di tortura nel codice penale italiano, quel poliziotto avrebbe risposto di tortura; sarebbe stato irrilevante accertare giudizialmente se la violenza sessuale fosse stata o meno consumata. Quella ragazza aveva subito tortura". Tra l'altro, "il reato di minaccia, contestato in quella circostanza, ha pene lievissime e conseguenti tempi ridotti di prescrizione".
Nonostante la scia di impunità sia lunga, il vuoto continua a permanere. Secondo Passione, la ragione è "innanzitutto culturale. La tortura è una sorta di tabù nel nostro paese e quando se ne parla lo si fa rimuovendo quello che è accaduto e accade in Italia. Si evocano scenari d'oltreoceano o che avvicinano la tortura a regimi totalitari e che ovviamente presentano un uso che ha a che fare con il potere. Da noi non è tanto in questi termini che si può parlare di tortura, e si ritiene che sia un falso problema e che sono le mele marce che pongono in essere comportamenti di questo tipo. Già questo di per sé non sarebbe una buona ragione per non introdurre il reato". Il punto, però, per l'avvocato è che "non si tratta di mele marce: può marcire una mela, ma attorno alla mela marcia bisognerebbe fare pulizia, bisognerebbe fare in modo che ci siano i presupposti perché la mela non marcisca. E questi presupposti sono innanzitutto culturali: bisognerebbe parlarne, cogliere ogni occasione per far capire che l'introduzione di questo reato non è più rimandabile. Ma, evidentemente, chi ha governato in questi anni non ha mai avvertito questa urgenza".