Nel caos di questi giorni, fra il "ritorno dell'incubo spread", il lento ma inesorabile mutare degli equilibri politici a livello europeo (con la sconfitta della linea dell'austerity e l'avanzare delle forze progressiste, in Francia come in Germania), la nuova, necessaria e probabilmente inutile al tempo stesso, consultazione elettorale in Grecia, non stupisce che ad uscire dall'agenda politica italiana sia stata la discussione sulla riforma della legge elettorale. Non tanto perché non si tratti di un tema cruciale e dal quale dipende il futuro a medio – lungo periodo degli equilibri politico – istituzionali nel nostro Paese, ma soprattutto perché si parla pur sempre di un terreno minato, di una partita che può mettere fine all'equilibrio precario su cui si regge il Governo Monti. E senza che il professore ne abbia la minima responsabilità, per giunta. Ecco dunque che per il momento, forse perché (per ragioni opposte) non conviene a nessuno arrivare ad una crisi di Governo e alle elezioni anticipate, i partiti stanno sostanzialmente eludendo finanche le sollecitazioni del Capo dello Stato e cercando un "approccio morbido" ad una questione che è invece di una complessità estrema. Ma che, cosa più importante, divide ed allontana non solo l'ABC, ma anche aree interne degli stessi partiti, come testimoniano le differenti impostazioni interne al Partito Democratico ed i paradossali botta e risposta fra Cicchitto e la fronda "guidata" da Giorgia Meloni. Eppure, almeno fino all'ultima trovata cicchittiana, il filo conduttore sembrava essere il giudizio sul Porcellum, una legge francamente improponibile e mortificante. In tal senso l'analisi di Massimo Giannini su Repubblica ci trova completamente d'accordo:
Un mostro giuridico, che produce caos e svilisce la democrazia rappresentativa. Mescola proporzionale e super-premio di maggioranza, presidente del Consiglio praticamente eletto dai cittadini e parlamentari "nominati" dalle segreterie di partito.
Quale modello per quale politica – Senza dubbio sulla legge elettorale la classe politica italiana si gioca quel che resta della sua credibilità complessiva. Una sensazione comune alla totalità dei leader politici, ma che non porterà necessariamente alla convergenza verso un progetto di riforma condiviso. Gli ostacoli sono già noti, così come i modelli su cui si cercherà di trovare la quadra (con calma e sempre in attesa di sviluppi legati ad una ineludibile riorganizzazione del fronte del centrodestra). Difficoltà che rispondono non solo a diverse visioni del rapporto politico – istituzionale, ma soprattutto a precisi "calcoli di bottega" che, ad ogni mutare del vento del consenso, spingono i partiti verso determinate posizioni. E se il modello tedesco, con correzioni sia chiaro, è da sempre considerato un punto di arrivo in grado di stabilizzare il sistema (e di stanare le forze politiche minori con il "contentino" del proporzionale), decisamente contrastanti sono le valutazioni sul modello francese che pure, nell'umilissima opinione di chi scrive, potrebbe portare il nostro Paese fuori dall'impasse e restituire un minimo di potere decisionale ai cittadini. Una legge elettorale maggioritaria e a doppio turno, in cui nella prima tornata ogni forza politica può scegliere di misurarsi con gli elettori con la propria proposta, il proprio candidato, la propria piattaforma ideologica, per poi decidere se convergere o meno su altri candidati nel "secondo round". Come in parte avviene alle amministrative per i Comuni sopra i 15,000 abitanti, in piena trasparenza e senza che si registrino chissà quali "effetti collaterali". Una strada sensata, dunque, ma che inspiegabilmente (?) non è sostenuta con la dovuta fermezza neanche da chi (vedi il PD) ne aveva fatto un punto nodale della riflessione in materia. Ma non sarà che, come suggerivamo in tempi non sospetti, in fondo in fondo il Porcellum fa comodo un po' a tutti (i partiti, ovviamente)?