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Cosa dice la sentenza della Cassazione sulla cannabis light

La sentenza della Cassazione ha decretato che “vendere i derivati della cannabis” rappresenta un reato. Ma, nell’ultima riga della soluzione adottata, si dice “salvo che tali prodotti siano privi di efficacia drogante”. La soglia da non superare è quella del THC, che non deve essere oltre lo 0,2%. Limite già ampiamente rispettato dalla cannabis light.
A cura di Tommaso Coluzzi
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Nel tardo pomeriggio di ieri la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza molto attesa, su un tema di cui si dibatte da tempo: la cannabis light. Secondo i giudici vendere "i prodotti derivati dalla cannabis sativa L" rappresenta un reato, considerando tra questi "foglie, inflorescenze, olio e resina ottenuti dalla coltivazione". La sentenza fa riferimento alla legge 242 del 2016, secondo la quale le uniche varietà di canapa coltivabili, senza commettere un reato, sono quelle riconosciute come piante agricole. Sul caso avevano già sentenziato la Quarta e la Sesta sezione della Cassazione, esprimendo pareri opposti, poi è arrivato il giudizio definitivo, quello di ieri delle sezioni unite penali che, in teoria, ha messo un punto alla questione. Tuttavia viene lasciato uno spiraglio, proprio nell'ultima riga del documento, che fa riferimento all'efficacia drogante dei prodotti che o verrebbe misurata a priori tramite il contenuto di THC o controllata e giudicata di volta in volta. Questo è il testo della soluzione adottata:

La commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge n.242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione della canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all'art.73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante.

Quindi i negozi chiuderanno come dice Matteo Salvini?

Proprio su quell'ultima riga si dibatte da ieri, con Federcanapa che è intervenuta sulla questione, sottolineando come la soluzione della Cassazione "non determini la chiusura generalizzata dei negozi che offrono prodotti a base di canapa", proprio perché "il testo dice infatti chiaramente che la cessione, vendita e in genere la commercializzazione al pubblico di questi prodotti è reato salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante". Ed è proprio questo il punto, infatti nel nostro Paese la questione è regolamentata proprio dalla legge 242 del 2016, che, nell'articolo 4 commi 5 e 7, dice:

  5. Qualora all'esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell'agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge.

7. Il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla presente legge possono essere disposti dall'autorità giudiziaria solo qualora, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione è superiore allo 0,6 per cento. Nel caso di cui al presente comma è esclusa la responsabilità dell'agricoltore.

La cannabis light è stata commercializzata a partire da questa legge e poi regolamentata con delle circolari dei governi Gentiloni e Conte. La soglia per la vendita al dettaglio è stata fissata allo 0,2% di THC, anche se dovrebbe essere considerata light sotto allo 0,5%. Mentre la legge citata in precedenza prevede la non responsabilità per i coltivatori fino allo 0,6%, con la distruzione o sequestro come conseguenza del superamento di questo limite. La soluzione della Cassazione, facendo riferimento all'efficacia drogante, non cita esplicitamente alcun limite tra quelli elencati in precedenza. Come ha spiegato l'avvocato Zaina: “È la solita scappatoia all’italiana: se la canapa non ha un principio attivo drogante, la questione non esiste. Ora bisognerà stabilire cosa si intende per principio drogante. Se un commerciante riesce a dimostrare che la sostanza che vende non ha effetto drogante, non c’è niente di illecito”. Mentre da Federcanapa è arrivato l'augurio che "le forze dell’ordine si attengano a questa netta distinzione tra canapa industriale e droga nella loro azione di controllo e che non si generi un clima da caccia alle streghe con irreparabili pregiudizi, patrimoniali e non, per le numerose aziende del settore".

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