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Le consultazioni per il nuovo governo

Contratto di governo Pd – M5s: le ragioni del sì, quelle del no e il confronto fra i programmi

È davvero possibile aprire un dialogo fra PD e M5s che porti alla formazione di un nuovo governo? Proviamo a vedere cosa dicono i programmi e quali possono essere le vie d’uscita alla crisi.
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Il contratto di governo proposto dal MoVimento 5 Stelle rischia davvero di restare lettere morta e di finire immediatamente tra le boutade da post campagna elettorale. La proposta dei 5 Stelle si è scontrata con ragioni di metodo, prima ancora che di merito: il canale per la concertazione di misure e programmi condivisi non si è ancora aperto, dal momento che nessun interlocutore ritiene che sussistano le condizioni minime per sedersi al tavolo coi Cinque Stelle. Salvini non può accettare il veto su Silvio Berlusconi, anche per non perdere peso contrattuale. Il PD non ritiene possibile alcuna intesa con chi fino a poche settimane fa bollava militanti e dirigenti democratici come corrotti, complici del disastro, incapaci e via discorrendo.

Cosa accadrebbe se la discussione si spostasse sul merito dei provvedimenti? Sono così enormi le distanze fra le piattaforme programmatiche di MoVimento 5 Stelle e Partito Democratico? Che margini ci sono per un incontro a metà strada sulle singole proposte?

Non è semplicissimo dare delle risposte, perché il rischio di incorrere in generalizzazioni, semplificazioni, cherry picking e altre fallacie logico – concettuali è molto alto. Si può però provare a partire dalle “richieste” avanzate in questi giorni e dai punti programmatici sviluppati nel corso della campagna elettorale, con le recentissime “modifiche” e aperture registratesi in questi giorni.

M5s – PD: perché sì

Maurizio Martina, reggente democratico dopo le dimissioni di Matteo Renzi, ad esempio dal Quirinale ha spiegato quali siano le 4 priorità sulle quali il PD ha chiesto attenzione al Presidente della Repubblica Mattarella: lotta alla povertà con ampliamento del REI (la proposta del PD è di raddoppiare immediatamente le risorse per allargare platea e aumentare la consistenza dell’assegno), la prosecuzione della linea Minniti per quel che concerne la gestione dell’immigrazione, con il rafforzamento degli interventi in Libia, l’ulteriore messa in sicurezza dei conti pubblici, la conferma della dimensione europeista e atlantista dell'Italia. Al di là dell’ovvia considerazione sull’estrema limitatezza dell’orizzonte ideologico in cui si muovono le richieste di Martina, va detto che se queste fossero le condizioni del PD, Di Maio non avrebbe alcuna difficoltà ad accoglierle. In linea teorica, infatti, esiste una soluzione di mezzo fra Rei e reddito di cittadinanza (altro sarebbe trovare la quadra da un punto di vista finanziario, per la verità), così come Di Maio non avrebbe obiezioni al rafforzamento della linea Minniti in tema di gestione dei flussi, di crociata contro le ONG e di delega ai libici nel controllo della nostra frontiera di mare. Inoltre, il leader grillino proprio dal Quirinale aveva ufficializzato la mezza sterzata sulla collocazione internazionale del paese: NATO, UE ed euro come condizioni essenziali.

Le ragioni più strettamente politiche sono state riassunte da Dario Franceschini: "Dobbiamo dire in questo momento che l'interesse del Paese, che viene prima di quello del partito, ci porta a contrastare l'ipotesi di un governo M5s-Lega. Perché nasce un governo sovranista di lunga durata si fanno la legge elettorale e si votano il presidente della Repubblica". In questa lettura, la linea del "non fare nulla" non ha senso, perché potrebbe spingere Di Maio tra le braccia di Salvini, una prospettiva drammatica per l'Italia. O, peggio ancora, portare a nuove elezioni anticipate: opzione giudicata tremenda, anche in considerazione del prevedibile ulteriore calo di consensi del partito. Aprire al M5s per "condizionarne l'azione politica", per "sfidarli sui temi", potrebbe dunque essere un'opzione sensata, che costringerebbe anche Di Maio a svelare le proprie carte e mostrare la reale consistenza dell'offerta.

M5s – PD: programmi a confronto

Su cosa potrebbe basarsi il contratto di governo che il MoVimento 5 Stelle e il Partito Democratico dovrebbero sottoscrivere?

La base di partenza potrebbe essere il programma con il quale il M5s si è presentato alle elezioni politiche del 4 marzo, riassunto nei “20 punti per la qualità di vita degli italiani”. Subito dopo le elezioni, contemplando la possibilità che si arrivasse a una simile posizione di stallo, avevamo provato a capire la posizione del Partito Democratico relativamente alle proposte grilline, semplificando alcuni punti di contatto con l’obiettivo di determinare la sussistenza o meno delle condizioni per far partire un dialogo sui temi. La tabella, rivista in alcuni punti alla luce delle dichiarazioni di questi giorni (aperture e chiusure), mostra i punti di contatto ma anche le nette divergenze:
Nota a margine: abbiamo usato un asterisco per determinare la posizione del PD su alcuni punti contenuti nella proposta del MoVimento 5 Stelle. Questo perché si tratta di ambiti su cui i governi Renzi e Gentiloni hanno già lavorato, questioni che sono state affrontate e spesso anche risolte nella stessa direzione. La digitalizzazione della pubblica amministrazione, per esempio, ma anche l’abolizione di Equitalia, le assunzioni nelle forze dell’ordine, il piano di assunzione docenti: si tratta di provvedimenti già presi e alcuni già operativi, su cui chiaramente c’è convergenza. Bisogna capire il come, ovvio, ma va detto che programma e “punti per l’Italia” del M5s sono a volte generici e privi di dettagli.

Patto di governo PD – M5s: perché no

Le ragioni della contrarietà a un accordo di questo tipo sono di diversa natura, da quella politica a quella strategica, da quella ideologica a quella tecnica (i numeri sarebbero comunque poco rassicuranti), da quella “personale” a quella passionale. Il fronte renziano del “no” prova a tenerle dentro tutte a partire da quella che si ritiene essere la sola interpretazione del voto del 4 marzo: “Gli elettori ci hanno chiesto di stare all’opposizione”. In realtà, il sistema istituzionale italiano si basa per storia, prassi e conformazione, anche su accordi parlamentari e la linea del PD finisce per legittimare la retorica dei “governi non eletti dal popolo”, che è un cavallo di battaglia dei populisti e della destra sovranista.

Allora, in che senso c’entra il voto del 4 marzo? C’entra nella misura in cui alle elezioni M5s e Pd si sono presentati su schieramenti contrapposti, in rappresentanza di modelli di pensiero opposti, di istanze diverse e nell’ottica di idee di futuro non concilianti. Cosa che, per esempio, non si può dire di Lega e M5s. Per di più, la “proposta” di Di Maio arriva dopo anni di opposizione senza se e senza ma, dopo mesi di muro contro muro, dopo toni (reciproci a volte) di una violenza inaudita, che hanno determinato un nuovo scivolamento del dibattito politico. Gli "insulti passati", in effetti, sono uno degli elementi centrali dell'opposizione al dialogo col MoVimento: anche perché una vera autocritica sul punto non c'è mai stata.

Di Maio ora parla di sotterrare l’ascia di guerra, restituendo bene il senso del comportamento che il M5s ha avuto in questi anni, ma senza spiegare se si tratti di una tregua, di un armistizio o dell'avvio di un percorso comune. Una forza politica che ha la storia del PD, però, non può accettare con disinvoltura di essere considerata come un pezzo di ricambio, che può andar bene oppure no, a seconda magari della risposta di una forza distante anni luce come la Lega. Il punto è che Di Maio insiste su una linea che ontologicamente non può essere accolta dal PD: quella dell'urgenza di un governo al Paese, che faccia ciò che serve ai cittadini a prescindere dal suo orientamento politico. È l'idea della spoliticizzazione istituzionale e procedurale che il PD è chiamato a osteggiare, la tesi del "destra e sinistra non esistono più", dello svuotamento di valore politico dietro scelte e azioni amministrative. In teoria, almeno.

Perché il punto è proprio questo: l'incapacità dimostrata negli anni del PD di caratterizzarsi chiaramente dal punto di vista della collocazione ideologica e il lento ma costante spostamento al centro (quando non a destra) della propria piattaforma programmatica. La perdita di identità, la confusione sui soggetti sociali da rappresentare, la sovrapposizione del livello politico e di quello amministrativo, la delega in bianco al leader, la riduzione degli spazi di democrazia interni: sono tutti elementi che hanno contribuito al tracollo elettorale e alla perdi  Se davvero c'è una anomalia in questo percorso è rappresentato non tanto dal fatto che Pd e M5s non riescono a mettersi d'accordo, ma quanto dal fatto che potrebbero benissimo farlo perché o la pensano allo stesso modo oppure potrebbero pensarla allo stesso modo senza troppi problemi e senza che "logicamente" ci sia molto da eccepire. L'anomalia è che l'offerta politica stia diventando indistinguibile.

Lo spiega piuttosto bene l’europarlamentare Daniele Viotti: “Non credo che quella di Di Maio sia un’apertura vera, ma ciò non ci deve impedire di discutere. È un’opposizione inutile anche a noi, se non diciamo quali sono i punti di differenza. […] Penso che dobbiamo analizzare non quello che è successo il 4 marzo, ma quello che è accaduto negli ultimi 10 anni. Il problema non è stato solo Renzi, ma una serie di classi dirigenti, che ci hanno portato a perdere nel 2008, a non vincere nel 2013 e a perdere adesso. Il partito è al lumicino. Sono rimaste le macerie di politiche, di voti e di bilanci”.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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