L’argomento usato più frequentemente da attivisti e militanti del Movimento 5 Stelle nel rispondere alle obiezioni su “come sia possibile fare un accordo con la Lega di Salvini” è noto: non è un’alleanza, ma un contratto di governo. Ecco, in questi giorni qualcuno si starà accorgendo di due cose, che non si escludono a vicenda: la concretezza della pratica politica richiede tempi rapidissimi, dunque la pretesa di decisioni condivise è un miraggio; il contratto serve al massimo a dare delle linee guida e, nel caso specifico, quelle linee sono chiaramente e ostinatamente orientate a destra. Il punto è capire che la combinazione di questi due fattori sarà determinante per stabilire come andrà a finire la storia fra Lega e Movimento 5 Stelle.
Prendiamo i due recentissimi casus belli, che hanno entrambi come protagonista assoluto il ministro dell'Interno Matteo Salvini: il "pugno duro" (cit.) sull'immigrazione e l'annunciata campagna contro i rom.
In entrambi i casi non c’è alcuna contraddizione fra quanto scritto nel contratto e i proclami del ministro dell’Interno. Basta leggere il documento presentato come “rivoluzionario” dagli alfieri del governo del cambiamento. La linea sull’immigrazione è esattamente quella seguita da Salvini: ricostruzione della questione come “emergenza nazionale” e problema di ordine pubblico, verifica delle regole d’ingaggio delle modalità di salvataggio da parte delle ONG, “pugno duro” in Europa, procedure “speciali” per i migranti (“occorre poi prevedere specifiche fattispecie di reato che comportino, qualora commessi da richiedenti asilo, il loro immediato allontanamento dal territorio nazionale”), equazione accoglienza / malaffare, deresponsabilizzazione rispetto a domande dio protezione internazionale, espulsioni di massa per gli irregolari, ripristino e rafforzamento dei centri di detenzione per i migranti, taglio degli stanziamenti, controllo stringente sui ricongiungimenti familiari, vincoli alla libertà religiosa (chiusura moschee irregolari, registro ministri di culto islamici).
Alla voce “Campi nomadi”, invece, il contratto stabilisce:
Il dilagare dei campi nomadi, negli ultimi anni, l’aumento esponenziale di reati commessi dai loro abitanti e le pessime condizioni igienico-sanitarie a cui sono sottoposti ha reso tale fenomeno un grave problema sociale con manifestazioni esasperate soprattutto nelle periferie urbane coinvolte. Ad oggi circa 40 mila Rom vivono nei campi nomadi e il 60 per cento sono minori. Sono pertanto necessarie le seguenti azioni: chiusura di tutti i campi nomadi irregolari in attuazione delle direttive comunitarie; contrasto ai roghi tossici; obbligo di frequenza scolastica dei minori pena l’allontanamento dalla famiglia o perdita della responsabilità potestà genitoriale. In ogni caso, proponiamo di intervenire per il pieno superamento dei campi Rom in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea.
"Dilagare", "aumento esponenziale", "azioni necessarie". È il racconto di una emergenza nazionale, su cui intervenire il prima possibile e con la massima durezza. Il censimento si inserisce esattamente in questa concezione della questione.
I proclami di Salvini sono perfettamente in linea con quanto messo nero su bianco nel contratto di Governo, o meglio, sono la naturale concretizzazione politica delle linee guida concordate tra Lega e Movimento 5 Stelle. Oltre che di ciò su cui tanto Lega che M5s hanno costruito il successo alle elezioni del 4 marzo. Tant'è vero che il massimo che i Cinque Stelle stanno facendo è quello di "condannare" (servirebbero una decina di virgolette) gli eccessi verbali di Salvini, provando a fornirne una versione edulcorata e più o meno politically correct. Qualche giorno fa, sollecitato dai giornalisti rispetto alle dichiarazioni del ministro dell'Interno, Luigi di Maio aveva spiegato: "Nel contratto di governo vengono definiti due obiettivi: disincentivare le partenze e la tutela dei diritti umani. Siamo tutti d'accordo che questi siano i due obiettivi da raggiungere". Ecco, è esattamente questo il vicolo cieco in cui si sono messi i Cinque Stelle: aver regalato a Salvini la possibilità di poter sfruttare a proprio piacimento una piattaforma programmatica vaga e indeterminata, con una impronta populista, sovranista e antisistema che si presta a essere piegata con facilità alla campagna elettorale permanente di un leader in grado di fiutare prima da che parte tiri il vento. Condizioni che si sposano alla perfezione con la pazza idea di Salvini: un governo del fare, dai tratti fortemente autoritari, in cui il consenso popolare sia sempre costantemente inseguito per essere poi usato come un grimaldello, per legittimare forzature e cambiamenti radicali delle prassi e delle consuetudini della vecchia politica.
Tra queste, l'idea che le decisioni siano collegiali, che la funzione di guida spetti al Presidente del Consiglio e che ruoli e compiti abbiano ancora un senso. Salvini fa conferenze stampa da ministro dell'Interno con lo sfondo "Salvini premier", commissaria il ministero dei Trasporti, annuncia rottamazione delle cartelle Equitalia, dà indicazioni a Marina e Guardia di Finanza, sogna di stravolgere la Costituzione, rivendica il ruolo di interlocutore con le cancellerie estere e lascia le briciole a Conte. È allo stesso tempo super-ministro dell'Interno, vicepremier, capo di quella che i sondaggi danno come prima forza politica del Paese, cittadino indignato, influencer e padre di famiglia preoccupato.
Per ora, come detto, i Cinque Stelle stanno fingendo di non vedere cosa sta accadendo, derubricando l'egemonia politica di Salvini a "il suo modo di esprimersi" o a "linguaggio schietto e diretto". Mentre la questione è molto complessa e richiederebbe una seria riflessione, nella considerazione che le opzioni sono sostanzialmente due: salire sul carro salviniano o provare a bucargli le gomme, magari cercando una forte caratterizzazione di diverso tipo. La prima strada è quella che sta seguendo il ministro dei Trasporti Toninelli, che ha sposato in pieno la linea Salvini sul caso Aquarius, rafforzando la lettura del ministro dell'Interno con i suoi interventi ed evitando la polemica sull'evidente scavalcamento dei ruoli. La seconda è quella che stanno provando a organizzare, su fronti opposti, sia il ministro Tria che Di Maio. Quest'ultimo ha scelto di provare a caratterizzare fortemente la sua azione nel campo dei diritti dei lavoratori e dell'assistenza ai deboli, quasi come volesse coprire "il campo a sinistra" lasciato libero da Salvini. Ma lo sta facendo tra mille contraddizioni, molti più problemi e con la consapevolezza di dover continuamente inseguire il leghista sul suo campo. Quello in cui non contano particolari doti comunicative o politiche, non contano i provvedimenti e i risultati, ma la capacità di indirizzare gli umori delle persone e di intepretarne gli istinti.
Sbaglieremmo però a pensare che le due strategie siano complementari, non solo per il diverso riscontro tra l'opinione pubblica delle due proposte politiche. Il punto è che quella cui stiamo assistendo è evidentemente la saldatura fra due differenti "tipologie" di populismo: quello sovranista e nazionalista della Lega e quello "gentista", anticasta e radicale del Movimento 5 Stelle. Una saldatura che sta avvenendo soprattutto fra l’elettorato e che porta inciso il marchio di una ideologia aggressiva ed escludente, che utilizza l’odio e l’insofferenza non per dividere ma per unire le persone, per compattarle intorno a un nemico comune, sia esso il "buonismo dei radical chic", la "pacchia" degli immigrati o "l'illegalità dei campi rom". È il marchio di fabbrica Matteo Salvini, appunto.