Le primarie per la scelta del leader di un partito, almeno per come sono andate a configurarsi in questi ultimi anni, sono un problema, politico e culturale. Ogni analisi di cosa sta succedendo in casa 5 Stelle non può che partire da qui, almeno a parere di chi scrive. L’ultima volta che le primarie hanno influito nell’equilibrio interno a un partito è stato, forse, nel 2012, quando Renzi costrinse Bersani al secondo turno, pur senza impensierirlo davvero fino in fondo. La successiva “scalata” renziana al partito fu determinata dal disastro elettorale di Bersani, con tanto di primarie vinte “in scioltezza”. Da allora e prima di allora, non si ricorda una sola consultazione realmente in bilico per quel che concerne la dimensione nazionale delle primarie, che spesso si riducono a un modo per determinare il peso delle correnti. Un modo per contarsi, insomma, più che un sacrosanto strumento di partecipazione democratica.
Anche nel caso del Movimento, probabilmente, l’apparato ha fagocitato le primarie, trasformandole in uno strumento di e per il potere. Con le dovute differenze, chiaramente. L’esito scontato della consultazione interna al M5s è infatti collegato a una domanda: perché Di Maio non deve giocarsi neanche la partita ed è ormai sicuro dell’investitura a leader della coalizione? Perché nessuno degli altri “big” del MoVimento ha osato sfidarlo?
La linea “difensiva” standard suona più o meno così: il leader non conta, perché il MoVimento ha solo dei portavoce che devono applicare il programma e decidere in modo collegiale, col supporto degli altri eletti e degli iscritti; insomma, “uno vale uno”. Ma se uno vale uno, perché sono anni che si lavora alla costruzione del “candidato Di Maio?”
Sono anni, in effetti, che si parla del vicepresidente della Camera come del candidato premier del MoVimento 5 Stelle e da tempo è operativo un vero e proprio piano di accreditamento non solo presso militanti ed elettori, ma anche presso corpi sociali e settori produttivi, industriali e lobbisti su tutti, e infine sui livelli istituzionali, non solo in Italia. È un dato di fatto che la Casaleggio e, più in generale, ciò che chiamiamo “i vertici del M5s, abbiano puntato su Luigi Di Maio, come vi raccontavamo solo qualche giorno fa:
Di Maio, che si è ben comportato da vicepresidente della Camera (riuscendo a essere al tempo stesso “istituzionale” e “di lotta”, peraltro nell’organo dell’odiata Boldrini), ha caratteristiche peculiari: fornisce ampie garanzie a diversi gruppi, portatori di voti e di interessi; coniuga dogmatismo grillino (sulle regole) a realismo pratico (su scelte e programmi); conserva un indiscutibile appeal mediatico; riesce a tenere insieme lo spontaneismo grillino con un minimo di profondità di analisi (sul punto c’è ancora da lavorare, ovviamente). E, in aggiunta, buca lo schermo, piace a quel pubblico televisivo tra cui il MoVimento ha bisogno di recuperare consensi.
Data la situazione, dunque, non è da biasimare la scelta di chi, tra i big, ha preferito non candidarsi, scegliendo di non partecipare a una lotta che, per forza di cose, non era ad armi pari. Sovraesposizione mediatica, sondaggi commissionati e mai divulgati, comunicazione Di Maio oriented, centralità nell'universo 5 Stelle, zero tempo per la campagna elettorale: tutti elementi che restituiscono l’immagine di una competizione squilibrata, falsata nei suoi presupposti essenziali. E sempre viziata dai soliti dubbi sulla trasparenza dei processi decisionali, dalle lacune delle piattaforme partecipative e da un diffuso clima di sfiducia nei meccanismi di inclusione del MoVimento, che negli anni si è trasformato in una specie di autocrazia.
Uno vale uno, uno vale l'altro
Qualche tempo fa, Gianroberto Casaleggio intervenne in modo tranchant sull’eterno dibattito sulla leadership: “Nel MoVimento 5 Stelle non ci sono leader, è un movimento ‘leaderless’. Il leader del M5S è il M5S stesso”. È lo spirito originario del MoVimento: uno vale uno, secondo la regola aurea della “non necessità” delle individualità, della subordinazione del singolo alla leadership collettiva, organismo che elabora pensieri e proposte e surroga il pensiero individuale, che, se condiviso, diventa patrimonio collettivo in un processo autoreplicantesi. È un contesto in cui la politica è servizio a tempo, impegno disinteressato, anche per l’assoluta interscambiabilità dei ruoli e delle funzioni, permessa dalla condivisione delle conoscenze, dall’intelligenza collettiva mediata dalla rete.
Uno spirito continuamente tradito in questi 5 anni. Dai post di Beppe Grillo, l’infallibile per statuto, alle espulsioni, dai diktat della Casaleggio in materia di comunicazione alle scelte fatte senza passare per gli iscritti: tra tante cose buone e in un contesto di assoluta sperimentazione, è evidente come in questi anni siano emerse una serie di “figure” e una struttura gerarchica chiara e blindatissima.
Da leaderless a leaderistico, però ce ne passa di strada. Ed è qui che si concentrano i dubbi sull'enigma Di Maio. È qui che la partita si fa complessa e divisiva, anche internamente. Di Maio, infatti, non è Fico, il volto "francescano", né di Battista, il movimentista, e nemmeno, per dire, Taverna, la donna "che parla la lingua del popolo". È un leader politico in senso tradizionale, o almeno uno che lavora per esserlo.
Grazie al ruolo di vicepresidente della Camera si è ritagliato uno spazio importante sul piano istituzionale, che è riuscito a far combaciare perfettamente con la sua attività politica interna al MoVimento. Non a caso praticamente chiunque abbia avuto “problemi” o sia stato allontanato dal gruppo, lo dipinge come autoritario e aziendalista, pragmatico e cinico. Si badi bene, tutte doti utilissime per un politico “tradizionale”.
Vincere è la sola cosa importante
Il punto è che il MoVimento non dovrebbe essere una forza politica di tipo tradizionale. È nato per altri fini, con altre ambizioni e con la necessità di rompere gli schemi della politica tradizionale. Democrazia diretta, sovranità popolare, responsabilizzazione dei cittadini, attivismo civico, rifiuto delle vecchie logiche ma anche dei vecchi strumenti e luoghi della politica, fedeltà manichea a principi consolidati di etica e trasparenza, fiducia nella forza dirompente del progresso tecnologico e scientifico. Questa era l’ideologia del MoVimento 5 Stelle, che poi è stata declinata “al grande pubblico” per mezzo della polemica anticasta, del “ritorno al potere del popolo”, della critica violenta al sistema dell’informazione e via discorrendo. Col passare del tempo, la forza progressista e innovatrice ha ceduto il passo a uno strano accrocchio fra populismo e conservatorismo. Gli attacchi esterni e le crepe interne, determinate anche da un rivedibilissimo processo di selezione di candidature e classe dirigente, hanno determinato la chiusura a riccio del MoVimento, poi blindato sul piano comunicativo dal gruppo orbitante intorno alla Casaleggio, che si è occupato anche di limitare la forza propositiva e propulsiva dei gruppi parlamentari. Molto è stato sacrificato in nome dell’obiettivo ultimo: la possibilità di competere per la vittoria alle politiche, la speranza di andare al Governo. Vincere, per molti, non è la sola cosa che conta, però.
Ed è evidente che è questa la vera sfida che dovrà affrontare Di Maio: convincere i grillini che il cambiamento è necessario e ineluttabile, che la trasformazione in partito gerarchico e strutturale non significa la rinuncia allo spirito originario del M5s, ma ne è la logica conseguenza. Di Maio dovrà spiegare la distanza che c’è fra pragmatismo e utopia, giustificando il tradimento delle istanze “oltranziste” in nome di un obiettivo più ampio. E convincendo i militanti che, anche ufficialmente, ora hanno un capo, non solo un portavoce.