Chi comprerà le quattro “banche ponte” create nell’ambito del salvataggio di Banca Marche, Banca Etruria, Carife e Carichieti? Non il Banco Popolare, ha subito precisato Pier Francesco Saviotti, amministratore delegato dell’istituto, ai giornalisti che gli chiedevano novità al termine dell’incontro con Daniele Nouy, responsabile del meccanismo di supervisione unica della Bce, incontro a cui hanno partecipato i vertici di tutte le principali banche italiane e che era stato convocato presso la sede di Milano di Banca d’Italia. “Abbiamo già i nostri problemi”, ha scherzato, ma non troppo, il banchiere.
In effetti Saviotti ha già dovuto versare (la cifra sarà spesata interamente nel trimestre in corso) 100 milioni di euro al Fondo di risoluzione per coprire le quattro annualità da qui al 2018 prelevate anticipatamente dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (che avrebbe dovuto partire quest’anno e raggiungere in otto anni una consistenza complessiva di 6 miliardi di euro ossia l’1% di tutti i depositi garantiti) per poter coprire, dopo l’azzeramento del capitale sociale e dunque del valore dei titoli azionari (e delle obbligazioni subordinate), le perdite dei quattro istituti, le cui sofferenze sono poi state girate, ad un valore pari al 17,5% del valore facciale, alla mini “bad bank” che proverà a cederle a intermediari specializzati per cercare di recuperare qualcosa da girare allo stesso Fondo che con tali proventi e con quelli delle cessioni dei quattro “nuovi” istituti riportati in bonis dovrà rimborsare la liquidità anticipata in parte a fine anno e in parte tra 18 mesi meno un giorno.
In compenso lo stesso Banco Popolare parteciperà al pool di banche che saranno chiamate da Unicredit, Intesa Sanpaolo e Ubi Banca (le tre banche capofila, impegnatesi ciascuna a fornire 1,3 miliardi di euro di liquidità) a fornire pro-quota la liquidità da girare al Fondo: è un modo, questo, per condividere non solo il rischio di credito (modesto visto che CdP è stata chiamata a garantire l’intera operazione) ma anche il flusso di commissioni, visto che la liquidità verrà fornita a tassi di mercato che per quanto modesti restano più elevati del tasso applicato dalla Bce per fornire la liquidità a lungo termine alle banche italiane. Mors tua, vita mea del resto, intanto altri istituti hanno fatto “coming out”.
Il Monte dei Paschi di Siena, a sua volta salvatosi dalla crisi solo grazie all’intervento del Tesoro tramite i Tremonti Bond, poi trasformati in Monti Bond e infine in una partecipazione azionaria del 4,024%, ha fatto sapere di aver a sua volta contribuito al Fondo per 160 milioni di euro (sempre per le quattro annualità), ma che l’impatto netto nel quarto trimestre sarà di 100 milioni. Intesa Sanpaolo aveva già quantificato in 380 milioni l’onere derivante dalla partecipazione al salvataggio, Unicredit non ha parlato ma alcune fonti di mercato hanno identificato in 210 milioni gli oneri per l’istituto guidato da Federico Ghizzoni. Ubi Banca dovrebbe a sua volta aver versato tra i 90 e i 100 milioni di euro e per il momento non mostra particolare interesse alle banche ponte.
“Siamo riusciti per l’ ennesima volta in maniera autonoma e senza aiuti di Stato a fare l’operazione” di salvataggio, si è limitato a sottolineare il consigliere delegato Victor Massiah, aggiungendo: “Non possiamo essere soddisfatti per il semplice motivo che è una operazione comunque onerosa, però nei limiti della decenza, va bene così”. In effetti tra le attese per il risiko bancario che dovrebbe coinvolgere le maggiori popolari italiane, la presa d’atto che la crisi ha eroso profondamente la redditività e la stessa solidità patrimoniale di molti istituti, quanto meno di minori dimensioni, e le perdite che la vicenda comporterà per le Fondazioni bancarie azioniste degli istituti coinvolti, Massiah ha ragione a essere moderatamente soddisfatto: poteva andare molto peggio.
Lo tsunami ha infatti coinvolto almeno 150 mila piccoli risparmiatori italiani, ingannati dalle “loro” stesse banche, azzerando 2,3 miliardi di euro di valore (dati a fine 2012) per quanto riguarda il capitale azionario e altri 728 milioni per quanto attiene alle emissioni obbligazionarie junior coinvolte. Le sole Fondazioni bancarie hanno perso tra i 650 e i 700 milioni e vedono dunque compromessa la capacità di operare a favore dei rispettivi territori. La distruzione di valore, come ho già avuto modo di far notare, non è conseguenza della procedura seguita ma di anni di mala gestione da parte del management bancario e di distribuzione di illusioni da parte della classe politica locale e nazionale di questo paese.
Il re è nudo, viva il re, sperando che sopravviva senza troppi acciacchi che rischierebbero di paralizzare la ripresina italiana così faticosamente avviatasi in questi mesi e già a rischio di uno stop, non fosse altro per le crescenti tensioni in Medio Oriente e l’incerta tenuta delle economie emergenti, fattori che già minacciano di pesare non poco sull’andamento dei prossimi mesi dell’export del Made in Italy. Se alla fine fosse qualche gruppo estero a farsi avanti per rilevare le banche ponte, si leveranno i soliti strali contro lo straniero invasore o qualche sospiro di sollievo? Si accettano scommesse.