Cominciamo dal dato di fondo, inequivocabile ed incontrovertibile delle Regionali 2015: quasi metà degli italiani non vota, l’astensione è sui livelli più alti di sempre. In media la flessione è tra il 10 ed il 15 percento rispetto alle passate regionali, ma il calo è evidente anche nel confronto con le più recenti elezioni Europee. In altri momenti (e in un’altra epoca, forse) ci si fermerebbe a riflettere, chiedendosi se ha senso continuare a parlare a metà Paese. Ma il tema è “secondario”, dicono tutti. Qualunque cosa significhi.
Il bilancio finale è di 5 a 2. Il centrodestra conquista la Liguria e si conferma alla grandissima in Veneto. Il centrosinistra si conferma agevolmente in Toscana e Puglia, si “riprende” le Marche (considerando il passaggio di Spacca sull’altra sponda), la spunta in Umbria (con qualche brivido) e si riprende la Campania all’ultimo respiro. È 5 a 2, che non è l’improbabile 7 a 0, ma nemmeno il “rassicurante” 6 a 1: è un dato complesso, che va deframmentato ed analizzato con grande calma.
Nello specifico, di enorme rilevanza sono i dati di Veneto, Liguria e Campania. Nel 2010 Luca Zaia divenne Governatore del Veneto con il 60,1% dei consensi: 5 anni dopo chiude al 50% e si riconferma Governatore staccando di oltre 25 punti percentuali Alessandra Moretti, alfiere renziano per eccellenza. Se si considerano anche i voti raccolti dallo scissionista Tosi, il consenso intorno all'area di centrodestra torna sui livelli di 5 anni fa, quando a Palazzo Chigi c'era ancora Berlusconi ed il PD era reduce dal disastro veltroniano. Ma non solo, perché alle Europee il Partito Democratico della "ladylike Moretti" (regina di preferenze da capolista nel Nord Est) aveva raggiunto il 37,5 percento: ora è al 17,7 percento (con qualche spicciolo in più dalla lista "personale"). Parlare di tracollo veneto è persino generoso, individuare una chiara responsabilità nella sconfitta è invece molto più complicato. E, lo diciamo subito, prendersela con la Moretti (che pure aveva vinto le primarie e si era dimessa da europarlamentare), è tanto comodo quanto sommario, impreciso e non esaustivo.
In Liguria vince Toti e il centrosinistra cede il comando della Regione. L’ultima colpo di coda di Berlusconi, dicono in molti. L’ultimo atto del “partito bersaniano”, spiegano altri e in particolare la Paita furiosa, che sbrocca nel modo e nel momento peggiore prendendosela con Pastorino e compagni, senza abbozzare un minimo di autocritica (anche considerando che i voti alla sua coalizione sono superiori a quelli verso il candidato presidente). Che la lista Pastorino abbia tolto consensi è evidente, ma anche qui la domanda resta la stessa: che fine ha fatto il 41,7 percento dei consensi delle Europee? I democratici scendono al 25 più spiccioli, le liste a sostegno di Pastorino arrivano al 6,5: mancano migliaia di voti, scissione o no.
In Campania vince De Luca, dopo un testa a testa serrato con il Governatore uscente Caldoro. Il centrosinistra riconquista la Regione e chiude il cerchio al Mezzogiorno (con la vittoria a piene mani di Emiliano in Puglia). Tutto bene, dunque? Nemmeno per sogno, considerando la peculiarità della vittoria di De Luca e, in subordine, il calo netto del PD (che chiude intorno al 20% più spiccioli, mentre alle Europee era al 36,1%). Il nuovo Governatore, che sarà "vittima" della Severino appena proclamato, arriva a Palazzo Santa Lucia nonostante i renziani abbiano più volte tentato di sbarrargli il cammino (anche in maniera tragicomica, con la candidatura, poi abortita, di Gennaro Migliore alle primarie) e malgrado le mazzate ricevute dalla Commissione Antimafia: la sua è stata una vittoria di nervi e determinazione, che darà più grane che sorrisi al Presidente del Consiglio.
Il Partito Democratico arretra, ma non si dispera. Orfini, a caldo, giudica positivo il dato globale (5 a 2 è un successo, dice) e quello specifico del partito. Che perde una decina di punti rispetto alle Europee (anche se bisognerà valutare il dato delle liste civiche), cala paurosamente al Nord Est ed è in affanno anche nelle sue roccaforti dell'Italia centrale. Per la prima volta, però, non si manifesta l'effetto – Renzi, le cui decisioni e scelte si rivelano ben poco azzeccate.
Da segretario del PD, infatti, Renzi ha messo anima e corpo a sostegno della Paita e della Moretti, ma ha portato a casa una sconfitta bruciante. Da Presidente del Consiglio si è trovato nelle peggiori condizioni possibili: la sentenza della Consulta gli ha azzerato il tesoretto (e ha regalato un incredibile argomento polemico ai suoi avversari), la riforma della scuola gli ha inimicato un elettorato storicamente fedele e "propenso a recarsi alle urne", la gestione della questione migranti (perfetta, o quasi, a parere di chi scrive) si è rivelata più impopolare del previsto. Un insieme di fattori lo ha reso "battibile", ma l'entusiasmo dei suoi avversari politici è del tutto prematuro. È uno stop per Renzi, certo. Con le mani "libere", in prima persona e con una congiuntura favorevole, non c'è ancora partita. Perché? Principalmente per l'assenza di avversari.
Forza Italia non esiste più, o quasi. La vittoria di Toti è l'ultima boccata d'ossigeno per Berlusconi, ma il partito non esiste più: senza classe dirigente, erosa dalle correnti (Puglia e Toscana, ad esempio) e senza il consenso della base storica (che ha scelto altri lidi). La Lega Nord ottiene un risultato straordinario, in linea con le sensazioni degli ultimi mesi, e Salvini si conferma leader carismatico ed apprezzato anche al di sotto della linea gotica. Ma non è (al momento, certo) un avversario temibile per Matteo Renzi (qui abbiamo provato a spiegare il perché) e soprattutto non otterrà l'investitura di leader del centrodestra senza "soffrire". Anche perché permane l'ostacolo Mezzogiorno e resta l'enorme concorrenza in un determinato bacino elettorale.
Il Movimento 5 Stelle inverte il trend e mette a segno un buon risultato. Con qualche se e tanti ma. Lasciando da parte la storiella del "primo partito" (molte delle civiche sono organiche al PD, inutile sottolinearlo), resta ancora la sensazione della "grande incompiuta". È quella a 5 Stelle una forza in grado di contendere il Governo di una Regione o del Paese? La risposta, in questo quadro, è decisamente negativa. I grillini mancano di coraggio (in Campania, ad esempio, il 20% non è un buon risultato, con competitor come Caldoro e De Luca si poteva puntare a vincere, magari calando un asso), ancorandosi a statuti, clausole e meccanismi farraginosi e dimenticando la regola base della politica: la capacità di agire per ottenere risultati, di cambiare in corsa, di calarsi "nel momento", utilizzando la giusta strategia al momento giusto. Intendiamoci, non si tratta di "vincere per vincere". Ma di vincere per governare, per cambiare il Paese, la Regione, la città. E così si fa festa, si parla di trionfo, si grida all'imminente tracollo dei partiti. Intanto Salvini fa il botto, Toti si insedia in Liguria e la proposta di collaborazione di Emiliano finirà nel cestino. I grillini entrano in 7 Regioni e tornano sui livelli del 2013 mostrando di aver assorbito "l'impatto col sistema politico", certo. Molto, poco? Ecco, questione di prospettiva politica.