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Chi è Giovanni Falcone, cinque video che raccontano il giudice senza paura

A 25 anni dalla strage di Capaci, ecco alcuni stralci di interviste rilasciate da Giovanni Falcone che spiegano bene il suo impegno contro la mafia e la necessità di una corretta informazione su un fenomeno che è parte della storia italiana.
A cura di Ida Artiaco
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Giovanni Falcone, il giudice anti-mafia ucciso nella strage di Capaci (Wikipedia).
Giovanni Falcone, il giudice anti-mafia ucciso nella strage di Capaci (Wikipedia).

Era il 23 maggio 1992 quando una forte esplosione sull'autostrada A29 nei pressi di Capaci, a Palermo, uccise il giudice Giovanni Falcone, che aveva compiuto da pochi giorni 53 anni, sua moglie Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta. Il magistrato stava tornando a casa dall'aeroporto di Punta Raisi, dove era atterrato il suo volo proveniente da Roma. A rivendicare l'attacco furono i mafiosi di Cosa Nostra, contro i quali lo stesso Falcone e il suo pool di collaboratori erano impegnati da anni per riportare la legalità in Sicilia e in tutta l'Italia. Insieme all'attentato che annientò qualche mese dopo il suo collega e amico, Paolo Borsellino, la strage di Capaci è ricordata come uno dei momenti più bui della storia del Paese, e allo stesso tempo ha fatto di queste vittime innocenti il simbolo per eccellenza della lotta alla criminalità organizzata. Ma chi era davvero Giovanni Falcone? Scopriamolo attraverso le sue parole, contenute in alcuni spezzoni di interviste realizzate in tv negli anni in cui i media nazionali scoprivano l'importanza del suo impegno contro la mafia.

"Cosa Nostra sta preparando qualcosa di grave"

Il giudice Giovanni Falcone partecipa appena un anno prima della strage che gli costò la vita ad un approfondimento del TgR su Rai 3. Le parole del magistrato sono sembrate a molti, dopo quel tragico 23 maggio 1992, una sorta di profezia. "C'è qualcosa negli ultimi tempi che non mi convince affatto. Temo che si verificheranno fatti gravi tra poco. Abbiamo tanti segnali che ci fanno temere che possano accadere cose spiacevoli nel prossimo futuro". Falcone era un personaggio scomodo per la mafia siciliana. Nato e cresciuto nel rione Kalsa di Palermo, il suo obiettivo era restituire quel territorio ai suoi cittadini. Insieme ad altri tre colleghi, faceva parte di una squadra, il cosiddetto pool antimafia, il cui lavoro aveva portato all’istruzione di un maxiprocesso cominciato a Palermo nel 1986 e finito nel gennaio del 1992 con la conferma della Cassazione, per un totale di più di 400 imputati, 19 ergastoli e quasi 2.700 anni di reclusione in totale. Per questo, nomi illustri di Cosa Nostra, da Totò Riina a Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca, vogliono la sua testa e quella dei suoi uomini. Dopo il successo delle vicende giudiziarie in Sicilia, Falcone è anche pronto a guidare da Roma una superprocura nazionale contro boss e criminali, ma questi già dal 1991 sono al lavoro per pianificare nei minimi dettagli la sua fine. E lui lo ha sempre saputo. Prima ancora, nel 1989, era fallito contro di lui un attentato nella sua villa all'Addaura.

Totò Cuffaro e il Maurizio Costanzo Show

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Non prende mai la parola, ma lo sguardo di Giovanni Falcone è più che eloquente durante una puntata del Maurizio Costanzo Show, andata in onda nel settembre del 1991, durante la quale uno sconosciuto militante democristiano e deputato regionale, che in seguito diventerà governatore della Sicilia, Totò Cuffaro prende la parola. Nel suo intervento ad una puntata speciale della trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro dal Teatro Biondo di Palermo in collegamento proprio con il Maurizio Costanzo Show, Cuffaro sostiene che le iniziative portate avanti da un certo tipo di "giornalismo mafioso" fossero degne dell'attività mafiosa vera e propria tanto criticata, e comunque lesive della dignità della Sicilia. Giovanni Falcone, presente in trasmissione, fa cenno al conduttore Costanzo di non conoscerlo, mentre l'uomo continua a parlare di certa magistratura "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana", con chiaro riferimento a Calogero Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della Dc.

"Parlare della mafia per una corretta informazione"

Nella trasmissione "Babele", andata in onda il 12 gennaio 1992, Corrado Augias intervista Giovanni Falcone sull'ultimo libro scritto dal magistrato. Il giudice sottolinea come non voglia limitare il suo ruolo a quello di giudice che interviene nelle aule di giustizia, ma intenda spiegare un fenomeno, di cui i processi scaturiti dalle indagini del pool sono soltanto una prova. Al centro, c'è sempre la mafia. "È importante parlarne correttamente perché non vi è dubbio che vi sia una maggiore sensibilità sociale rispetto a questo problema – sottolinea Falcone -, ma spesso ne manca una giusta informazione". E ancora: "Conoscere un fenomeno non significa né condividerlo né stimarlo. Io mi sono sforzato di metterlo in luce per quello che mi appare". Il giudice, d'altronde, è nato e cresciuto in un territorio, quello palermitano e in particolare del quartiere della Kalsa, che aveva dato i natali anche all'amico e collega Paolo Borsellino, oltre che ad alcuni boss, come Tommaso Buscetta, in cui la criminalità organizzata si era andata progressivamente sostituendo allo Stato. "La mafia affascina i siciliani – continua -. La subcultura a questa sottesa non è altro che la sublimazione e la distorsione di valori che sono condivise da larghi strati della popolazione meridionale dell'Italia".

"Il coraggio è convivere con la paura, non farsi sconfiggere da questa"

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Nel 1991 la giornalista Marcelle Padovanì chiede a Giovanni Falcone cosa significhi per lui vivere sedici ore su ventiquattro in un piccolo ufficio di acciaio e cemento, per lottare contro la mafia. La risposta del magistrato è diventata una delle sue frasi più ricordate, ancora a 25 anni dalla sua scomparsa: "Il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso una volta sola. Per me l'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, ma è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo. Altrimenti perde il suo significato e diventa incoscienza". Falcone aveva imparato a convivere da tempo con la possibilità di morire. Dopo essere entrato in magistratura nel 1964 e trascorso qualche anno a Trapani, era tornato a Palermo dove aveva cominciato a collaborare con Rocco Chinnici, che gli aveva affidato la sua prima inchiesta contro l'ex costruttore edile Rosario Spatola. Prima di lui, avevano perso la vita indagando su quest'ultimo il capo della Mobile Boris Giuliano e il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Fu in questi anni che conobbe e divenne amico di Paolo Borsellino. Dopo il successp del processo contro Spatola, Chinnici ebbe l'idea di far nascere un pool antimafia, che si sarebbe occupato esclusivamente dei processi di mafia. Ma Cosa Nostra fece terra bruciata intorno ai magistrati coinvolti: dopo l'omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell'estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e di Paolo Borsellino, si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due giudici. E il boss pentito Tommaso Buscetta nel 1984 si era rivolto direttamente a Falcone: "Prima tenteranno di delegittimarla, poi passeranno alla soluzione finale". Il resto è storia.

"Non ho mai voluto abbandonare questa lotta"

"Lo faccio per spirito di servizio. Non mai avuto dubbi se abbandonare o meno questa lotta". È una delle ultime dichiarazioni di Giovanni Falcone, rilasciata a un giornalista di Rai 3, prima della strage di Capaci. Oltre al magistrato, persero la vita anche sua moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli unici sopravvissuti furono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l'autista giudiziario Giuseppe Costanza. Tutte vittime innocenti che ancora oggi, a  25 anni di distanza, vengono considerate il simbolo della lotta alla mafia. L'attentato venne deciso nel corso di alcune riunioni delle "Commissioni" regionale e provinciale di Cosa Nostra, tra settembre e ottobre del 1991, tutte presiedute da Totò Riina e nelle quali si parò anche dell'eventuale uccisione dell'allora ministro Claudio Martelli e del presentatore televisivo Maurizio Costanzo. Con la conferma delle condanne da parte della Cassazione effettuati nel corso del maxiprocesso, fu deciso che la strage non sarebbe più stata rimandata. Dopo di lui, è toccato al suo collega Paolo Borsellino subire la stessa sorte.

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