La Grecia “deve” restare in Eurolandia; l’Unione europea (e dunque il suo egemone, la Germania) “deve” avere il diritto di ingerenza sui bilanci nazionali dei singoli stati membri. Angela Merkel ha una sua idea molto precisa di che tratti dovrà assumere la futura unione politica europea ed evidentemente di chi “deve” sobbarcarsi l’ingrato, si fa per dire, ruolo di guida di un nuovo assetto istituzionale di Eurolandia che prima dovrà passare per un’unione bancaria, le cui regole potrebbero essere varate entro fine anno, e per un’unione di bilancio e politiche economiche, tutta da inventare presumibilmente nel corso del prossimo anno. A prescindere dal fatto che nulla in quello che dice la cancelliera tedesca consente di sperare in una rapida eliminazione dei profondi squilibri strutturali tuttora esistenti tra i vari paesi di Eurolandia, il deficit democratico del ragionamento dell’ex funzionaria comunista della Ddr appare sempre più evidente.
Purtroppo appare anche sempre più evidente che il diktat della Merkel null’altro è che l’altra faccia della medaglia del via libera dato a Mario Draghi poco più di un mese fa perché varasse un nuovo programma col quale la Bce si è detta pronta a offrire un sostegno illimitato (ma condizionato) a quei paesi “virtuosi” che si trovassero sotto scacco da parte dei mercati. Il semplice fatto che Draghi abbia tirato fuori il “bazooka” è bastato ai mercati per prendere atto della novità e per allentare le pressioni sui tassi dei titoli di stato, così oggi la Spagna è riuscita a collocare 4,614 miliardi di titoli a medio e lungo termine (contro una previsione di 3,5-4,5 miliardi) a tassi in calo. Nel dettaglio sono stati collocati 1,513 miliardi di Bonos 2022 ad un tasso del 5,4688% contro il precedente 5,70% nonostante una domanda in calo e pari a 1,88 volte l’offerta rispetto alle 2,85 volte dell’ultima asta. Collocati anche 1,464 miliardi di Bonos 2016 (al 3,977% dal 4,603% precedente) e 1,637 miliardi di Bonos 2015 (al 3,227% dal 3,676%).
In parallelo l’Italia ha visto esplodere la domanda per la terza emissione del Btp Italia, un titolo a 4 anni pensato inizialmente per gli investitori retail (che si vedranno riconoscere anche un “premio fedeltà” nel caso conservino il titolo sino a scadenza), indicizzato all’inflazione italiana (che renderà il 2,55% sopra l’inflazione italiana, mentre la prima emissione, scadenza marzo 2016, offriva il 2,38% reale e la seconda, scadenza giugno 2016, il 2,49%), che ha attratto l’interesse anche dei grandi investitori istituzionali, tanto da finire col registrare 18 miliardi di euro di sottoscrizioni contro i 7,3 miliardi della prima e gli 1,74 miliardi della seconda (e soprattutto contro i 5 miliardi che ci si attendeva questa volta). Crisi alle spalle e dunque un 2013 che potrà vedere le economie del Sud Europa (e dell’Italia in particolare) ripartire? Una simile ipotesi è quanto meno prematura, non solo perché le previsioni attuali parlano di un ulteriore lieve calo del Pil (tra lo 0,2% e lo 0,3%, contro il -2,4%-2,5% previsto per quest’anno) ma perché da qui a fine 2013 il Tesoro italiano vedrà scadere (e dovrà dunque rinnovare) titoli per circa 420 miliardi (contro i 150 miliardi circa di titoli di stato spagnoli in scadenza).
Insomma: con la Merkel sorridente e pronta ad appoggiare Mario Draghi nella sua difesa di Spagna e Italia tutto va bene, ma in cambio occorrerà aderire senza indugio alla “ricetta tedesca” fatta di lacrime e sangue e che punta tutto su una ripresa delle esportazioni tale da compensare il previsto ulteriore calo della domanda interna. Se poi la Merkel dovesse smettere di sorridere sarebbe un attimo riveder salire gli spread tra titoli italiani e tedeschi (che stasera sono attorno all’1,97% e al 3,13% rispettivamente sulle scadenze a 2 e 10 anni). Non stupiamoci dunque se l’attuale governo Monti non riesce ad adottare un approccio maggiormente “pro crescita” e si concentra su aspetti più “ragionieristici” di gestione dei conti prima che di rilancio dell’economia. Per poter tornare a crescere occorrerebbe quanto meno sradicare tre mali atavici delle itale genti: la corruzione, la burocrazia, l’evasione. A qual punto servirebbe convincere la Germania (e i mercati) che anche con un fisco meno esoso i conti pubblici resterebbero in ordine dando al contempo spazio a banche e imprese per tornare ciascuna a fare il proprio mestiere.
Fino ad allora spazio per sperare in nuovi “miracoli italiani” non se ne vede, anche se già la ripresa di quella attività di “ordinaria manutenzione” delle leggi e dell’ordinamento fiscale ed economico è un salto di qualità rispetto al vuoto assoluto del precedente governo (e ai danni di oltre 40 anni di governi “amici” di questa o quella lobby). Un esempio? La prossima introduzione dell’Iva “per cassa” dovrebbe dare una boccata d’ossigeno a molte piccole e medie imprese (il limite è di 2 milioni di euro l’anno di fatturato), spesso strangolate dall’allungamento dei termini di pagamento da parte della propria clientela e contemporaneamente dal restringimento del credito bancario. Ora, a partire dal primo dicembre (ma chi adotta un regime di contabilità semplificata con versamenti dell’Iva su base non mensile ma trimestrale finirà con l’adottarla, nel caso, dal prossimo gennaio probabilmente) sarà possibile versare solo l’Iva effettivamente incassata, al netto sia di quella relativa alle fatture già emesse ma non ancora incassate, sia di quella che si sarebbe altrimenti detratta dalle fatture di acquisto registrate ma non ancora pagate. Certo, in un momento in cui il governo mette un “tetto” di tremila euro complessivo alle detrazioni fiscali (che rischia di incentivare nuove forme di elusione), introduce una franchigia e così più che compensa l’alleggerimento delle aliquote Irpef per i primi due scaglioni di reddito, può sembrare poco. Ma con questi vincoli interni ed esterni il governo Monti non sembra in grado di fare di più, al momento.