E così ha inizio: con lo stop alla quotazione di Bpvi, nel cui capitale il fondo Atlante sale ad oltre il 99% avendo sottoscritto 1,5 miliardi di euro (che in assenza del fondo sarebbero finiti col pesare interamente su Unicredit), fa scattare copiose vendite sui bancari, con Banco Popolare, Bpm e Mps in perdita tra il 7,3% e il 5,5% a testa. Perché questa reazione così negativa? Per vari motivi. Anzitutto, nonostante la grancassa mediatica che voleva dipingere l’operazione se non come risolutiva come un “importante” passo in avanti per la soluzione dei problemi di sottocapitalizzazione e scarsa qualità del credito di cui soffrono la maggior parte delle banche italiane, alla fine come prevedibile (e da molti analisti previsto) il topolino è rimasto tale quale era.
Come avrebbe potuto del resto un fondo che non è riuscito neppure a raccogliere i 6 miliardi auspicati ma poco più dei 4 miliardi minimi senza i quali non sarebbe neppure nato (risultato raggiunto col determinante contributo di Cassa depositi e prestiti, che ha versato 500 milioni, più o meno la stessa cifra che il gestore del risparmio postale ha già perso in un’altra “operazione di sistema” come l’aumento di capitale di Saipem) a infondere fiducia sia nei “vecchi” soci, che hanno visto crollare in due anni il “valore” dei titoli BpVi da 62,5 a 0,1 euro e pure avrebbero sottoscritto un 2,86%, sia nei “nuovi” soci, che se ne sono tenuti lontani avendo prenotato appena lo 0,36% del capitale?
Di più: come si poteva sperare in un intervento degli investitori istituzionali con una forchetta larga “appena” quanto quella proposta (0,1-3 euro)? Intervento che peraltro si è palesato attraverso Mediobanca, interessata al buon esito dell’aumento di capitale da 1 miliardo di Banco Popolare senza il quale salterebbe la fusione con Bpm e quindi indirettamente tra coloro che sicuramente auspicavano un ben altro risultato per l’operazione BpVi, ma tant’è: i 10 investitori istituzionali che avevano accettato di correre i rischi del caso avrebbero avuto il 5,07% del capitale, di cui il 4,97% sarebbe però risultato in mano a un unico investitore “indicato come non computabile ai fini del flottante”, ossia la stessa Mediobanca che aveva condizionato la sottoscrizione della propria quota alla quotazione in borsa.
Così a Borsa Italiana non è rimasto che negare lo sbarco sul listino di un titolo di cui si sarebbe potuto scambiare tra lo zero e il 7,6% del capitale contro un requisito minimo del 25% richiesto per sbarcare sul listino italiano. Nessuno si può ora lamentare che i piccoli azionisti si trovano stasera di fatto con un pugno di carta straccia in mano, perché il danno è stato fatto tempo addietro, consentendo di gonfiare valori che semplicemente non stavano né in cielo né in terra e non adottando comportamenti di sana e prudente gestione (peggio: liquidando profumatamente gli ex amministratori sotto il cui occhio evidentemente poco vigile il disastroso risultato era andato maturando e votando contro ogni azione di responsabilità ai loro danni).
Sennonché col mancato sbarco a Piazza Affari di Bpvi sembra essersi aperta la battaglia finale per il controllo del settore creditizio italiano, finora saldamente in mano alla politica e al suo sottobosco economico-finanziario-sindacale locale e nazionale. Ora forse (il condizionale resta d’obbligo) a comandare sarà il mercato, che in Italia resta un perfetto sconosciuto ai più, cosa che lascia intravedere “manine” e “poteri forti” nell’ombra e interessi contrastanti da parte di operatori esteri, siano essi fondi specializzati nell’acquisto di Npl (non performing loan, crediti in varia misura destinati a non rientrare) a prezzi di mercato, siano essi concorrenti diretti di banche, assicurazioni e gestori del risparmio italiano.
Il quale risparmio italiano sarebbe tutelato dalla Costituzione, ma di fatto è finora stato tutelato sempre e solo nella misura in cui è rimasto al servizio di chi l’attuale sistema economico ha utilizzato a proprio vantaggio (per informazione provate a chiedere agli azionisti di Seat Pagine Gialle, Saipem o Banca popolare dell’Etruria e del Lazio), a partire dallo stato, che ha utilizzato le banche italiane come prestatrici di ultima istanza nel momento in cui è stato più facile far sottoscrivere titoli di stato a piene mani dalle banche medesime (certo, pagando interessi anche cospicui) che non varare riforme strutturali e tagli razionali della spesa pubblica, politicamente più costosi di un dissesto strisciante del paese di cui ci si sarebbe resi conto solo dopo decenni.
Ora che potrà succedere? Che Banco Popolare (e Mediobanca, che non ha voluto aderire al fondo Atlante) dovrà convincere il mercato che ha un piano di ristrutturazione e rilancio credibile con Bpm cui vale la pena dare credito. Poi sarà la volta di Veneto Banca, che in caso estremo verrà salvata da Atlante in modo analogo a quanto accaduto per BpVi. Sarebbe interessante capire se, in questo caso, vi sarà lo spazio per Penati e i suoi uomini, ormai banchieri a tutti gli effetti, per procedere ad un efficientamento a tappe forzate di una o entrambe le banche, magari anche arrivando alla fusione (che finora i due istituti non sono riusciti a condurre in porto per divergenti interessi di management e grandi so ci) e poi ad un nuovo tentativo di sbarco in borsa, che verosimilmente non potrà avvenire prima di 2-3 anni.
Per allora si spera che in un modo o nell’altro il problema degli Npl e delle sofferenze (rispettivamente pari a 360 e a 202 miliardi di euro lordi, come noto) si sia risolto e che il credito sia tornato a sostenere imprese e famiglie italiane, oltre che a sottoscrivere titoli di stato. Non c’è da farsi illusione alcuna che il processo sarà indolore: adeguare la spesa pubblica italiana e il settore creditizio tricolore al ventunesimo secolo rischia di costare molto in termini di posti di lavoro, salvo trovare qualche nuovo escamotage a colpi di prepensionamenti, che finirebbero però con lo spiazzare ulteriormente la generazione “XY” rispetto a quella attuale, garantendo a quest’ultima l’ultimo lembo di una coperta sempre più lacera che i nostri ragazzi rischiano di non poter neppure intravedere tra 20 o 30 anni.