Il sospirato via libera della Bce in merito alla procedura di ricapitalizzazione preventiva cui hanno chiesto di aderire BpVi e Veneto Banca sarebbe finalmente arrivato, dopo l’accettazione dell’offerta di transazione da parte di oltre il 70% dei piccoli azionisti e l’approvazione del bilancio 2016 delle due banche. Secondo voci diffuse sin da ieri sera, l’istituto centrale europeo, infatti, avrebbe giudicato solvibili i due istituti, pur avendo questi chiuso il 2016 rispettivamente con una perdita di 1,9 e di 1,5 miliardi di euro, in buona misura a causa di ulteriori decise rettifiche su crediti e accantonamenti.
Già l’esito dell’offerta di transazione che i due istituti avevano proposto ai piccoli soci perché rinunciassero a futuri contenziosi in relazione all’investimento in azioni dei due istituti (offerta che ha visto il 71,9% di adesioni per BpVi e il 73% per Veneto banca), così da neutralizzare il rischio di contenzioso stimato in quasi 4 miliardi di euro, aveva fatto sperare in un via libera da parte di Eurotower, per ufficializzare il quale si sarebbe dunque atteso solo l’approvazione dei bilanci 2016 dei due istituti, certamente redatti “sotto dettatura” da parte delle autorità italiane ed europee.
Oltre a dichiarare solvibili BpVi e Veneto Banca, la vigilanza della Bce avrebbe anche determinato il fabbisogno di capitale degli istituti, calcolandolo sulla base dei risultati raggiunti nello scenario avverso dello stress test dello scorso luglio. Il dato sarebbe già stato comunicato alla Banca d’Italia e al Tesoro, che provvederà a girarlo alle banche stesse e qui potrebbe esserci una sorpresa, non proprio positiva ma tant’è.
Nel loro piano industriale, che prevede ad una fusione entro fine anno, i due istituti al momento controllati quasi totalmente dal fondo Atlante avevano finora indicato un fabbisogno di capitale di circa 4,7 miliardi di euro, ma secondo l’agenzia Bloomberg alla vigilanza Bce non è bastato e l’asticella è stata alzata di oltre un miliardo e mezzo a quota 6,4 miliardi. La palla passa ora alla Commissione Ue cui spetterà, come già nel caso di Mps, l’ultima parola e che dovrà esprimersi sulle eventuali condizioni che le due banche dovranno rispettare in termini anche di taglio dei costi e ristrutturazione del perimetro di attività.
A questo punto una soluzione sia per Mps (che nel frattempo resta sospeso in borsa) sia per BpVi e Veneto Banca potrebbe giungere nelle prossime settimane secondo quanto dichiarato da un portavoce della stessa Commissione Ue. Quello che probabilmente ancora resta da decidere è, con precisione, quanta parte dei fabbisogni individuati per l’istituto senese (8,8 miliardi) e per le banche popolari venete (6,4 miliardi o la cifra che sarà poi confermata) dovrà essere addossata agli investitori privati (bondholder subordinati istituzionali e azionisti) e quanta potrà essere garantita dall’intervento pubblico, posto che le risorse pubbliche non potranno comunque essere usate per coprire perdite pregresse o perdite prevedibili, ossia le perdite sugli Npl che gli istituti hanno ancora in bilancio.
Da parte sua il fondo Atlante ha in pancia solo più 1,7 miliardi e difficilmente troverà soggetti disponibili a sottoscrivere ulteriori quote. Anche perchè con questi 1,7 miliardi Carlo Messina, il numero uno di Intesa Sanpaolo (che con Unicredit ha sottoscritto il maggior numero di quote del fondo, per un controvalore di 845 milioni di euro nel caso di Intesa Sanpaolo, per 841 milioni nel caso di Unicredit) preferirebbe che il fondo acquistasse Npl, anche delle due banche venete, piuttosto che partecipare ad una ulteriore ricapitalizzazione.
Il problema è che il mercato degli Npl, che esiste ed è molto efficiente a dispetto delle dichiarazioni dei politici e di alcuni banchieri italiani, prezza gli Npl tra il 15% e il 25% del loro valore lordo di libro come si è visto con la recente maxi cessione di Npl di Unicredit. Per Atlante (che ha evitato di comprare al 30% del valore lordo di libro una tranche degli Npl che Mps voleva cartolarizzare lo scorso anno) sarebbe un affare, per gli istituti coinvolti (e i loro futuri azionisti, pubblici o privati che siano) molto meno, ma sarebbe, finalmente, una presa di coscienza di come stiano le cose nella realtà e non nel mondo dei “desiderata”.
Come andrà a finire e quale sarà il costo addossato ad azionisti e obbligazionisti subordineti delle tre banche (e quanto ai contribuenti tutti) lo vedremo a breve, ma se la vicenda delle “good bank” ha insegnato qualcosa è che nel caso di banche in crisi, la realtà è sempre peggiore di come si è cercata di rappresentarla per evitare di spaventare ulteriormente i risparmiatori. Si può sperare che in questa circostanza possa essere diverso, vista l’opera di pulizia intrapresa, ma non c’è da scommetterci troppo.