Come è possibile che nel giro di poco più di un mese i principali listini mondiali siano passati da un’euforia che durava da circa sette anni al panico, come quello che oggi ha fatto perdere alle principali borse tra i 2 e i 5 punti percentuali, portando ormai la perdita da inizio anno ad oltre il 20% e dunque confermando che i mercati sono entrati in una fase “orso”, ossia di forte correzione?
Andiamo con ordine: a provocare l’ondata di vendita per una volta non sono stati dati o andamenti fortemente negativi dei listini cinesi, che anzi sono e resteranno chiusi anche nei prossimi giorni per le festività del capodanno cinese. In compenso ci si è accorti che, senza troppi clamori, i Cds (ossia i credit default swap, contratti con cui ci si assicura contro il rischio di credito di un emittente) sono ormai tornati a livelli che non si vedevano da almeno tre anni per molti emittenti del comparto bancario.
Insomma, per banche e assicurazioni lo scenario si va facendo anziché più tranquillo sempre più fosco e questa non è esattamente una bella cosa. Ma perché vi sono sempre più timori circa la qualità del credito e cosa significa? I timori sono legati alla perdurante crisi del comparto energetico-minerario, che si lega a sua volta ai segnali di rallentamento della crescita mondiale: insomma, gli investitori temono se non una recessione una fase di forte rallentamento che non giustifichi gli attuali multipli di borsa e renda probabile il fallimento di qualche gruppo più esposto e meno solido.
Se per gli Stati Uniti dopo sette anni di continua crescita favorita da una politica monetaria ultra rilassata a far scattare le prime prese di profitto è stata la decisione della Federal Reserve di avviare con la fine del 2015 una sia pure graduale “normalizzazione” della politica monetaria, ponendo fine all’epoca del denaro “a costo zero” (il che non significa che si tornerà a vedere tassi del 3% o del 5% sui depositi a breve, ma passare da un tasso dello 0-0,15% ad uno dello 0,25%-0,50% è pur sempre un rialzo significativo e attendersi che i tassi possano avvicinarsi all’1% entro fine anno lo è ancora di più), per il resto del mondo non stiamo parlando di un rialzo “pilotato” del costo del denaro da parte delle banche centrali, anzi.
La Bank of England è ormai unanimemente schierata a favore del mantenimento dello status quo (e infatti le previsioni per un rialzo dei tassi a inizio 2016 sono ormai andate tramutandosi in un’attesa per un primo rialzo solo nel 2018); la Bce potrebbe già a marzo allentare ulteriormente la presa, anche se ormai Draghi non sembra avere grandi margini di manovra oltre che portare ancora più in negativo i tassi sui depositi ed estendere o ampliare ulteriormente il quantitative easing; la Bank of Japan ha già tagliato “a sorpresa” il costo del denaro nelle scorse settimane, senza peraltro sortire particolari effetti per ora né sullo yen (che non si è deprezzato, anzi si è rafforzato) né su consumi e investimenti.
A far rialzare i tassi di mercato, nella fattispecie i Cds, sono i timori che la qualità dei crediti (e dunque del debito rappresentato da bond senior o junior che siano) stia nuovamente peggiorando per lo meno per tutti coloro che sono esposti al settore energetico-minerario (come Deutsche Bank, per citare un nome europeo). A conferma della fragilità dei mercati, proprio oggi a Wall Street, Cheesapeake Energy, uno tra i principali produttori statunitensi di “shale gas” ossia di gas naturale ottenuto dai giacimenti di scisti bitumosi, è crollato del 51% in avvio di seduta per il diffondersi di voci circa una imminente ristrutturazione del proprio debito da 9,8 miliardi di dollari, il cui progetto sarebbe stato affidato all’advisor Kirkland & Ellis.
Cheesapeake, che ha già licenziato personale e azzerato i dividendi nel tentativo di preservare flussi di cassa in rapido calo, ha smentito di aver intenzione di ricorrere ad una procedura di bancarotta, ma il titolo, che nell’ultimo anno ha perso il 93% del proprio valore, non si è ripreso. In Italia Saipem, controllata di Eni attiva nel settore dell’esplorazione petrolifera e della realizzazione di infrastrutture per l’industria petrolifera, ha da parte sua chiuso in calo del 25,29% la giornata a 38,85 centesimi per azione, dopo essere rimasta per gran parte della seduta sospesa per eccesso di ribasso.
Venerdì sera a mercati chiusi Standard & Poor’s aveva annunciato di aver avviato la procedura di creditwatch con implicazioni negative per il preliminary rating “BBB-”. Del resto l’aumento da 3,5 miliardi di euro in corso (e la prevista sottoscrizione di nuovi finanziamenti con un pool di banche) serve a rimborsare altrettanti debiti nei confronti della capogruppo Eni, che dunque sarà l’unica beneficiaria di un’operazione che ha già visto Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico italiano, sborsare complessivamente 900 milioni per ottenere una partecipazione del 12,5% (post aumento) e perderne, se le cose resteranno come stasera, oltre un terzo, visto che nel frattempo il valore della partecipazione si è ridotto a meno di 600 milioni.
Non è comunque solo il settore petrolifero e minerario a vedere prezzi sempre più “rotti”: chiusure in ribasso di oltre il 10% sono state segnate stasera anche da Mps, Bper, Ubi Banca, Banca Carige, terminata sul nuovo minimo storico di 51,85 centesimi , e Poste Italiane, a sua volta caduta a 5,36 euro, nuovo minimo storico, del 20,6% inferiore ai 6,75 euro per azione del debutto in borsa a dicembre. Per la verità nel caso di Poste Italiane il problema non sono la qualità del credito attuale o l’esposizione a settori “a rischio”, quanto le voci che vogliono il gruppo, attraverso Banco Posta, come possibile “cavaliere bianco” individuato dal governo per risolvere i problemi di Mps senza che si debba perdere l’italianità di cotanto “strategico” istituto: le Poste hanno smentito, il mercato non sembra averci creduto, i piccoli azionisti sentitamente ringraziano.