Quella andata in scena in queste ore alla Camera sulla questione di genere è un'altra delle pagine buie della recente storia parlamentare italiana. Confusione, rinvii, mediazioni infinite, fronti bipartisan ed accordicchi sotto banco: il tutto per aggiungere sale sulla ferita della nuova legge elettorale, frutto di un "accordo privato" tra Renzi e Berlusconi, sostanzialmente imposta al Parlamento e blindata (con il pasticcio dell'abolizione dell'articolo 2) da una maggioranza anomala ed ampia. Sulla cosiddetta parità di genere, invece, il Governo ha scelto la linea del "rimettersi alla volontà del Parlamento", lasciando sostanzialmente libertà di scelta ai deputati e cedendo solo in parte alle pressioni di un fronte bipartisan, mobilitatosi peraltro proprio a cavallo dell'otto marzo. In pratica, quello che si chiede (e si chiederà nuovamente al Senato) è che la composizione delle liste bloccate segua il principio della parità di genere, garantendo il 50% di componente femminile "in partenza".
Al di là delle impostazioni delle differenti forze politiche la questione è datata e molto discussa. Nelle ultime ore la battaglia si è spostata sulle "interpretazioni della Costituzione", con la Boldrini che ha esplicitato ciò che molte parlamentari sostengono: "Ci sono due articoli della Costituzione, il 3 e 51, che parlano di parità e la parità passa anche per una legge elettorale che tenga presente questo aspetto". Curiosamente, è proprio la possibile incostituzionalità di un eventuale intervento in materia una delle ragioni del no da parte del relatore di maggioranza Francesco Paolo Sisto (che poi è di Forza Italia). Il riferimento principale è dunque all'articolo 3 ("Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali […]") e in maniera più specifica al 51 nella misura in cui si afferma: "Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". L'ultimo comma citato è così interpretato sia nel senso "integralista" delle pari opportunità di elezione, sia in quello delle pari opportunità di accesso. Una sintesi la fornisce Sergio Romano sul Corsera, spiegando:
Un provvedimento che imponesse di garantire posti al gentil sesso mi parrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, sebbene l' articolo 3 della Costituzione, che sancisce tale principio, sia ambiguo e perfino contraddittorio perché il primo comma (uguaglianza legale) non si concilia con il secondo (uguaglianza materiale). Comunque a me pare una verità di per sé evidente che favorire le donne come tali costituisca una discriminazione appunto in base al sesso, perciò vietata dalla Costituzione due volte, in quanto attribuisce un vantaggio alle femmine e uno svantaggio ai maschi.
Il punto è appunto la riflessione sulla parità di accesso e sulla necessità di una tutela ulteriore. È evidente a tutti infatti che la definizione per legge di una griglia di candidature in base al sesso degli individui violi i principi della meritocrazia, rappresentando evidentemente una forzatura rispetto a quelle che dovrebbero essere le naturali dinamiche politiche e contribuendo ad "individuare" una differenza (di genere in questo caso) anche laddove non ce ne sarebbe bisogno. Ovviamente (e in maniera molto banale) la meritocrazia ha senso solo a parità di condizioni e basi d partenza. Dunque, la questione è nei presunti "ostacoli" alla libera autodeterminazione degli individui e alla loro volontà di scegliere (in questo caso) la carriera politica. In buona sostanza, la domanda è: in che modo la condizione femminile rappresenta un problema nel campo delle cariche politiche ed elettive? Se tali ostacoli ci fossero, allora è evidente che, come scrive la Stefanelli sul Corsera, "è la pratica delle quote a creare le premesse per quell’eguaglianza di opportunità alla quale una società liberale aspira", se non altro come " rimedio temporaneo, un ponte gettato per superare asimmetrie storiche di presenza e di potere, al quale si rinuncia non appena le due sponde si riallineano". Tanto più che in tal senso andrebbero fatte altre due constatazione: le quote rosa (dove ci sono) sembrano funzionare e con l'attuale legge elettorale si sostituisce un criterio "di nomina" ad uno più squisitamente "meritocratico" (con le dinamiche interne che tendono a favorire la conservazione del sistema".
Ma quali sono gli ostacoli alla pratica politica che incontrerebbero le donne? Quale discriminazione potrebbe "convincerci" a sostituire al principio di merito la tutela di genere? Quali pregiudizi sarebbero così impattanti da rallentare o bloccare il cammino di un politico "solo in quanto" donna? Sia chiaro, nessuno disconosce la presenza di "residui fallocentrici nella società italiana", né vi è la possibilità di non rintracciare nel conflitto di genere una pulsione essenziale, ma vi è probabilmente la necessità di "non legittimare" ai massimi livelli della rappresentanza politico – istituzionale una differenza che non c'è. Il punto è ammettere che non vi è alterità e che non è la condizione di genere il discrimine per un rappresentante dei cittadini. Di un politico andrebbero apprezzate competenza, onestà, assiduità al lavoro, disponibilità nei confronti dei cittadini, tolleranza, sensibilità e via discorrendo. C'è la benché minima possibilità di limitare la partecipazione politica di donne competenti e determinate? Per non parlare del fatto che in una lista bloccata, la semplice condizione di genere non può costituire un vantaggio. O almeno non dovrebbe (si legga il punto di vista "particolare" di Filippo Facci sul Post).
Infine, forse nei luoghi della politica dovrebbero essere rappresentate istanze diverse ed elementi della "vera" conflittualità sociale. Insomma, per citare un post dal blog "Eretica" sul FattoQuotidiano, sarebbe forse più utile parlare "di quote sociali, un po’ di gente con le pezze al culo, maledizione, a raccontare quello che noi vediamo tutti i giorni e che dentro i palazzi non si vede mai. Perché le donne sono parte attiva di una comunità e se si usa il brand “donna” per legittimare brutte regole elettorali allora stai semplicemente esigendo un privilegio".