Che si saranno detti stamane al vertice tenutosi a Palazzo Chigi il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, i vertici di Cassa depositi e prestiti, Claudio Costamagna e Fabio Gallia, i numeri uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, e di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, e ultimo ma non per importanza il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti? Il tema sul tappeto era lo stato di salute del sistema bancario italiano, ufficialmente “sanissimo”, in pratica sempre alle prese con un macigno di crediti deteriorati e in sofferenza che non dovrebbe far dormire sonni tranquilli né al governo né agli azionisti (e obbligazionisti) delle banche medesime, visto che nell’era del “bail in” e dei “poteri imperiali” della Vigilanza Bce nessuna banca europea può dirsi al sicuro dalla richiesta, imperativa, di ricapitalizzazione.
L’obiettivo che si è data la Bce, infatti, è di alzare gradualmente la patrimonializzazione degli istituti del vecchio continente, così da contenere il rischio “sistemico”, ma la continua richiesta di nuovi capitali non piace (quasi) a nessuno. Gli analisti di Mediobanca Securities, ad esempio, hanno giusto ieri tagliato a “neutral” il giudizio sul settore proprio citando la “crescente incertezza normativa” e il timore che “alla fine della partita ci saranno più capitale e più bassi payout” (ossia minor dividendi in proporzione agli utili). Il che significa che chi finora ha comandato e distribuito prebende politicamente rilevanti non potrà più farlo, salvo non riesca a trovare i capitali necessari. L’era dei “salotti buoni” (a partire dalla stessa Mediobanca), ufficialmente esecrati ma concretamente clonati in tutta la Penisola, sembra alla fine ma la fine potrebbe essere più turbolenta del previsto.
L’ultimo obiettivo di Mario Draghi, infatti, potrebbe essere un altro, come notano gli analisti: quello di neutralizzare “la sovraesposizione delle banche italiane ai titoli di Stato”, ritenuta “uno dei principali ostacoli alla mutualizzazione europea”. Ai maggiori capitali necessari a favorire la pulizia di bilancio e nuove operazioni di aggregazione più o meno “sistemiche” rischiano poi di aggiungersi costi di rifinanziamento più elevati, nonostante la pioggia di liquidità a tassi anche sotto zero che la Bce stessa si prepara ad elargire alle banche del vecchio continente. Tra quest’anno e il prossimo, infatti, verranno a scadere 617 miliardi di euro di finanziamenti a lungo termine (circa un terzo del totale in essere), di cui 361 miliardi riferiti a bond senior (il 41% del totale senior), 204 miliardi a covered bond (il 31% della tipologia) e 53 miliardi a prestiti subordinati (pari al 21% del totale in circolazione), questi ultimi sempre più difficili da collocare.
Dato che nel frattempo verranno a scadere anche 3.300 miliardi di euro circa di asset esposti ad un calo dei tassi, per il 58% rappresentati da mutui con scadenza 2017 (il 41% dei mutui totali), per il 39% da bond corporate (41% del totale) e per il resto da obbligazioni, Mediobanca Securities stima che il margine d’interesse netto recupererà un 4% grazie ai minori costi di finanziamento ma perderà un 7% per via dei minori rendimenti sui nuovi prestiti. A soffrire di più saranno proprio le banche spagnole e italiane, molto esposte sui mutui (le banche spagnole) e sui titoli di stato (le italiane) e che subiranno anche a causa dell’elevata esposizione ai crediti deteriorati un peggioramento medio del 4% del coefficiente Cet1 (all’8,3% medio), cosa che offrirà l’occasione alla Bce per richiedere nuove iniezioni di capitali.
Tornando a vicende più di breve termine, nell’incontro odierno si sarebbe parlato in particolare di due banche e dei relativi problemi di ricapitalizzazione: l’aumento di capitale da 1,5 miliardi previsto per la Banca popolare di Vicenza, che dovrà partire entro fine mese come richiesto dalla Bce, e quello di Veneto banca, da 1 miliardo di euro (ma alcune voci non escludevano potesse essere portato a sua volta attorno agli 1,5 miliardi), da completare entro giugno. Le condizioni di mercato sono tuttavia pessime, perché è difficile trovare nuovi investitori ansiosi di investire in banche che potrebbero dovere ulteriormente svalutare i propri asset a rischio e/o lanciare altri aumenti di capitale negli anni a venire, tanto che oggi Banco Popolare (che a sua volta deve lanciare un aumento da 1 miliardo prima di fondersi con Bpm) ha perso oltre 8 punti percentuali a 4,91 euro per azione.
Così non è improbabile che chi dovrà garantire le operazioni (Unicredit e Intesa Sanpaolo) abbia chiesto qualche contropartita o l'intervento di Cassa depositi e prestiti (che da statuto deve gestire il risparmio postale), finora non molto fortunata quanto a timing dei propri interventi in Ilva e in Saipem, solo per citare gli ultimi due. Un ulteriore tema è stato finora lasciato in secondo piano ma potrebbe essere stato almeno accennato, quello delle ricadute sul mercato del lavoro.
Il rafforzamento del settore creditizio attraverso fusioni e acquisizioni non potrà infatti non avere un ulteriore impatto negativo in termini di posti di lavoro. Il mito del posto fisso è ormai al tramonto, anche dietro lo sportello bancario, ma la rivoluzione creditizia che da tempo appare avviata all’estero in Italia fatica a sbocciare, anche per via dell’arroccarsi di lobbies e potentati di ogni genere e categoria in difesa, estrema, dei propri diritti acquisiti (o privilegi, se preferite). Che questo possa poi tradursi in un ulteriore gap per il paese e, di conseguenza, in sempre maggiori incertezze per la sostenibilità futura del nostro benessere collettivo a nessuno sembra per il momento importare.