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Banche italiane a picco in borsa: che succede e chi rischia di più

Mps ha bruciato il 30% del suo valore residuo oggi, Banca Carige oltre il 17%, Banco Popolare ha sfiorato il -11%. Cosa sta succedendo alle banche italiane e chi rischia di più?
A cura di Luca Spoldi
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Banche, la caduta delle quotazioni continua a Piazza Affari, dove neppure le dichiarazioni di Davide Serra, Ceo del fondo Algebris Investments e considerato tra i finanzieri più vicini al premier Matteo Renzi, bastano a evitare le vendite da panico scattate nel pomeriggio e a risollevare il titolo Mps, sospeso nuovamente più volte nel corso della giornata in borsa prima di chiudere a 51 centesimi (-29,82%), ennesimo nuovo minimo storico che porta la capitalizzazione a poco più di 1,9 miliardi di euro.

Per non essere da meno Banca Carige ha perso il 17,8% terminando a 1,497 euro, Banco Popolare ha chiuso a 8,685 euro (sfiorando il -11%), Unicredit a 3,706 euro (-7,77%), Bper a 5,21 euro (-7,3%), Ubi Banca a 4,498 euro (-6,68%), Bpm a 76,65 centesimi (-6,52%), persino Intesa Sanpaolo è caduta a 2,542 euro (-5,5%) e Mediobanca a 7,305 euro (-4%), nonostante questi ultimi due istituti non siano stati minimamente sfiorati da timori specifici sulla qualità dei conti. Serra aveva dichiarato stamane di stare iniziando a investire su bond senior e junior dell’istituto senese, dopo essere stato per anni pubblicamente “corto” sul titolo.

Per Serra dopo l’esito della verifica degli attivi (Aqr) da parte della Bce l’istituto ha preso le giuste misure e i numeri confermano che la banca è adeguatamente patrimonializzata. Se questo è vero a maggior ragione dovrebbe esserlo per istituti che hanno avuto meno problemi di Siena, ma il mercato non si è minimamente tranquillizzato in assenza di novità alcuna sul fronte della “bad bank” sistemica italiana (oltre che a causa del timore che ormai le borse siano entrate in una fase di severo calo delle quotazioni, che certo non aiuta). Ma perché la bad bank sembra essere così importante e chi rischia di più nel caso non si riesca a vararla?

Anzitutto chiariamo: “bad bank” è il termine utilizzato per indicare i veicoli che assorbono gli asset deteriorati di una banca (ossia i crediti che con un grado più o meno alto di probabilità sono destinati a non essere più restituiti), così da permettere a una nuova “banca ponte” di tornare sul mercato senza ulteriori fardelli. E’ quanto è accaduto alle quattro banche “risolte” a fine 2015, per le quali Banca d’Italia ieri ha invitato a presentare offerte entro e non oltre le ore 18.00 di lunedì 25 gennaio prossimo.

Per le quattro banche ponte (Nuova CariFerrara, Nuova Banca delle Marche, Nuova Banca dell’Etruria e del Lazio, Nuova CariChieti) le offerte in verità non dovrebbero mancare, come invece erano mancate per oltre due anni per le “vecchie” (e cariche di crediti deteriorati di incerta valutazione) banche poi risolte. Ora il tema delle sofferenze, ovvero dei crediti deteriorati, che a livello di sistema valgono (dati a fine novembre scorso) qualcosa come 201,028 miliardi lordi, ovvero 88,8 miliardi netti, in entrambi i casi, purtroppo, nuovamente in crescita rispetto a fine ottobre e sui massimi dal 1996, è quello che fa trattenere il fiato al mercato.

Perché proprio ora? Perché a fronte di un sistema europeo in ritardo rispetto alle trasformazioni avviate in altre aree mondiali, le banche italiane sono tra le più fragili per l’ingente quantità di titoli di stato in portafoglio (anche se a questo ha posto rimedio la Bce avviando il suo quantitative easing), la difficoltà di accesso al credito (anche in questo caso ha messo una toppa Mario Draghi, rifinanziando a tassi vicini a zero tutte le banche che lo hanno chiesto, in particolare proprio quelle italiane) e, appunto, livelli di sofferenze triple rispetto a quelli ante crisi mondiale del 2008 e doppi rispetto a quelli medi europei (il 17% abbondante contro una media Ue attorno all’8%).

Sofferenze che le banche vendono perchè valorizzate in bilancio a livelli ancora troppo distanti dai valori di mercato, ma che se non si vendono (o cedono a una bad bank, come capitato per le quattro banche risolte) impediscono di portare a termine eventuali fusioni e integrazioni. Dal primo gennaio, poi, è entrata in vigore, anche in Italia, la normativa europea sui “bail-in”, voluta dopo l'esito della crisi greca e che riprende la logica applicata nel caso di Cipro (e del salvataggio delle banche spagnole).

Questa nuova norma prevede che i salvataggi bancari pesino prima su azionisti e obbligazionisti (sia junior, come già capitato per le quattro banche risolte, sia senior, cosa finora mai successa) oltre che, se non fosse sufficiente, per i depositanti oltre i 100 mila euro di importo, fino alla copertura di almeno l’8% delle passività totali della banca finita in crisi. Solo dopo si potrà accedere alle risorse dei fondi di risoluzione nazionali (dunque del settore pubblico, ossia dei contribuenti tutti) per la copertura di un ulteriore 5% di passività.

Tra le banche italiane, la Bce ha già chiesto a Veneto Banca e a Banca Popolare di Vicenza di lanciare un aumento di capitale entro aprile per evitare che scatti una procedura di bail in: nel primo caso si tratta di raccogliere un miliardo (propedeutico, almeno in teoria, alla quotazione in borsa), nel secondo di raccogliere 1,5 miliardi (anche qui con l’obiettivo di sbarcare a Piazza Affari). Il problema è che in questo momento sul mercato chiunque sia in odore di un aumento (Saipem potrebbe annunciarne uno da 3,5 miliardi già domani ed ha chiuso a -10,44%, Astaldi potrebbe studiarne uno nei prossimi mesi per acquisire Maltauro Costruzioni ed è finita a -7,36%) subisce violente perdite che rischiano di rendere ancora più diluitive tali operazioni, cosa che a sua volta induce chi ha i titoli a venderli ancora più rapidamente.

Per convincere gli investitori a sottoscrivere occorrerà infatti proporre “sconti” sul Terp (il prezzo teorico del titolo una volta staccato il diritto a partecipare all’aumento) che si dice possano essere tra il 35% per Saipem e il 90% ipotizzato dal Financial Times per Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza. Ecco dunque che da Mps a Banca Carige, da Bper a Bpm, Banco Popolare e Ubi Banca sono sotto tiro, come pure colossi che in passato hanno sofferto per una non eccellente qualità del credito, come Unicredit.

Probabilmente ha regione Serra e a questi prezzi si potrebbe iniziare a investire ma c’è un’incognita ulteriore: l’irritazione delle istituzioni europee nei confronti dell’Italia pare ai livelli di guardia. A Mario Draghi non piacciono i continui rinvii sia delle riforme strutturali, sia delle clausole di salvaguardia (aumento dell’Iva e delle accise), in assenza di tagli alla spesa (che Renzi non può permettersi con l’avvicinarsi di nuovi turni elettorali e un quadro economico che al di là della retorica di governo è tutt’altro che rassicurante).

Per contro alla Germania e in particolare al suo ministro economico Wolfgang Schauble non piace l’irrigidimento dell’Italia su questioni come l’erogazione alla Turchia di 3 miliardi di aiuti europei per affrontare l’emergenza migranti. Draghi teme che un’Italia sempre alla ricerca di scuse per “non fare i compiti” finisca con indebolire la sua posizione in seno al board della Bce, Schaeuble pensa a un “club di responsabili” in grado di accollarsi l’emergenza migranti ma anche, un domani, di tenere in vita Schenghen (e l’euro) chiudendo le frontiere verso quei paesi che non avranno voluto condividere gli oneri del progetto unitario europeo.

La Germania potrebbe quindi rinviare sine die (o riservare a pochi paesi fidati) il terzo e ultimo passo dell’unione monetaria, il fondo di garanzia comunitario che il governo di Berlino non vuole concedere “a babbo morto” senza sufficienti garanzie di solidità e trasparenza. Se a questo stallo si dovesse sommare una nuova frenata della crescita economica mondiale ed italiana, magari come conseguenza dei problemi che affliggono la Cina e i mercati emergenti, il rischio che prima che la situazione migliori qualche altro nome, anche tra quelli citati, possa saltare non è così remoto e a giudicare dall’ampiezza dei crolli odierni il mercato ha già una sua idea di chi sono i soggetti che rischiano di più.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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