Vittorio Taviani era un compagno, anche se oggi – altri – useranno altre parole, aggettivi, nomi, per ricordarlo. Diranno tutto, pur di non pronunciare la più scandalosa delle parole: "compagno".
Tireranno giù tutta la biografia e tutti i premi, pur di non scrivere quella parola lì.
Allora ve lo dico io: Vittorio Taviani era un compagno, nell'unico senso che riconosco a questa parola: sentire le storie degli altri, al punto tale da poterle raccontare in quel modo lì.
Era nato a un tiro di schioppo da dove sono nato io, molti anni dopo. Era di San Miniato, provincia di Pisa. Debuttò con un film con Gian Maria Volonté, ispirato alla vita di Salvatore Carnevale, bracciante, socialista di Sciara provincia di Palermo, sindacalista, movimento contadino, ucciso da sicari mandati chissà da chi. Chissà da chi.
Vittorio e Paolo erano appena adolescenti, durante la guerra, e giocavano spargendo chiodini sulla strada sperando di bucare le gomme alle auto dei tedeschi. "Avevamo paura, ma il senso della sfida era più forte". Poi, ogni tanto, la mamma li mandava a chiamare il babbo – "ditegli che può rientrare" – perché il babbo dormiva fuori, sempre più spesso, gli avevano già bruciato il negozio e gli antifascisti li ammazzavano, a quel tempo lì e ogni tanto anche oggi.
La mamma, per amore, diceva ai figli dove il babbo si trovasse solo quando dovevano andare a chiamarlo. E spesso era nascosto nel campanile, anche il prete era un compagno come il babbo e come Vittorio. Poi, il cinema. Cioè continuare a scrivere la storia con altri mezzi.