Trenta ottobre 1975. È sera, il primo freddo autunnale ha ingiallito le foglie e anticipato il rientro a casa di qualche ora. In via Caravaggio, tranquilla strada residenziale che si inerpica tra i quartieri di Posillipo e Fuorigrotta, non si vede quasi nessuno passare, solo ogni tanto si sente il suono pesante del motore di qualche utilitaria o degli autobus di linea. Nessun bambino in costume suona alle porte con travestimenti macabri e lanterne ricavate nelle zucche, chiedendo “dolcetto o scherzetto?”. Il folklore americano di Halloween approderà nel nostro Paese solo diversi anni più tardi. Nell'enorme appartamento al quarto piano del civico 78, la famiglia Santangelo si sta per sedere a tavola. Mimmo Santangelo è nello studio, mentre Gemma Cenname, la moglie, è in cucina indaffarata con la cena. Angela Santangelo, invece, la figlia diciannovenne è seduta sul letto nella camera matrimoniale, in pigiama e febbricitante. Sta scrivendo una lettera d'amore al fidanzato. Qualcuno suona il campanello, Mimmo va ad aprire seguito dal piccolo Yorkshire Terrier che abbaia festante. Dietro a quella porta, nella lungubre notte in cui si racconta che i morti incontrino i vivi, c'è un macellaio che metterà a segno il delitto più enigmatico della storia della cronaca nera italiana.
Il massacro di via Caravaggio
L‘istantanea di quella famiglia borghese, sorpresa in un momento di intimità domestica dal "mostro", riempirà le pagine dei giornali nazionali. "Padre, madre e figlia massacrati in casa" titoleranno i quotidiani. La dinamica dei fatti è violentissima, sconcertante. Quella notte un misterioso assassino varca la soglia accolto dal padrone di casa che gli ha offerto perfino un bicchiere di liquore nel suo studio. Dopo il "mostro" tramortisce Santangelo con un oggetto contundente trovato in casa, poi si avventa sul cagnolino soffocandolo per impedirgli di attirare l'attenzione con il suo abbaio disperato. In casa ci sono altre due persone e lui lo sa: si dirige in cucina dove si abbatte sulla 49enne Gemma e la tramortisce mentre dalla stanza da letto fa capolino Angela, atterrita dai rumori. Non ha il tempo di mettere a fuoco cosa stia accadendo e viene a sua volta colpita alla testa con tale violenza che muore sul colpo. I coniugi no, non sono morti e il macellaio torna sui suoi passi. Dalla cucina afferra un coltello e va dritto nello studio dove sgozza Domenico Santangelo con un solo colpo, poi ritorna nuovamente in cucina dove strazia con sei fendenti Gemma Cenname. Convinto che anche lei abbia solo perso i sensi, torna sulla soglia della camera da letto dove c'è il corpo di Angela e la sventra con due due colpi da all'addome e altri cinque al collo. Dal piano di sotto gli inquilini odono un trambusto di passi e oggetti trascinati sul pavimento, tanto che pensano a un trasloco, mentre di sopra l'assassino trascina i corpi delle 4 vittime nella vasca da bagno e deposita lì, una sopra l'altro il cane e i suoi padroni. Al corpo della giovane viene riservato un trattamento diverso: lo lascia sul letto avvolto in un tappeto intriso di sangue. Dalle 23 alle 5 del mattino è un continuo frastuono. Alle prime luci dell'alba i rumori cessano, la strage è finita. L'assassino lascia un'impronta di scarpa taglia 42 nel sangue, delle cicche di sigaretta, tra cui una di marca Gitanes. Incautamente lascia una traccia della mano sporca di sangue sul davanzale di una finestra. Ci sono un paio di guanti di gomma nel bagno.
La famiglia Santangelo: chi erano le vittime
Nel periodo della violenza di piazza e del terrorismo, un orrore simile a Napoli non si era mai visto. Qualcuno si è accanito contro una famiglia benestante. La piccola borghesia che in quegli anni prosperava, è stata colpita al cuore. La famiglia, simulacro di quell'Italia democristiana e conservatrice, non è più sacra. E allora per un processo inverso inspiegabile è proprio quel nucleo aggregatosi in tarda età a finire sotto inchiesta. Chi sono veramente le vittime della strage di via Caravaggio? Domenico Santangelo, 54 anni era pensionato, ex capitano di lungo corso in marina, ex stato amministratore dei villaggi Lauro. Integrava la pensione come amministratore di condominio. La sua prima moglie e madre della figlia Angela era morta per le conseguenze di una iniezione di antibiotico che gli aveva praticato lui stesso. Un anno dopo aveva sposato Gemma Cenname, 49 anni, ex insegnante e titolare suo studio di ostetrica in via Mario Fiore 49. I due si erano conosciuti tramite gli annunci di un quotidiano. Poi c'era la figlia Angela, diciannove anni, nata dal primo matrimonio di Santangelo. La ragazza aveva trascorso il periodo successivo alla morte della madre in casa di una zia materna e si era ricongiunta da poco al padre. Aveva trovato lavoro da un anno circa all'Inam in via Davide Winspeare a Fuorigrotta, non lontano dalla casa paterna. Anegla fidanzata con un giovane, Nicola Sceral, al quale era promessa e a cui la notte della sua morte scriveva: "Con te ho provato e conosciuto cosa è: la dolcezza, la tenerezza, l'amore, la gioia…Sono le 22:30. Chiudo perché si è fatto tardi e mi auguro di dormire. Riprenderò domani mattina". Il puzzle è quello di una famiglia normale sulla quale, però, cominciano a circolare voci di inconfessabili segreti, come quella secondo a quale Gemma avesse praticato aborti clandestini o quella che voleva Angela legata Giuseppe De Laurentiis, un medico dell'Inam che le avrebbe presentato il suo fidanzato.
Chi è Domenico Zarrelli: l'eterno sospettato
A riferire della presunta relazione della ragazza è il protagonista di questo enigma: Domenico Zarrelli, nipote di Gemma Cenname, figlio di un presidente di corte d'Appello che tramite il suo legale suggerì la tesi passionale. Un ragazzone grande e grosso con tanti capelli e un passato turbolento. Il giovane viene indagato dopo pochi giorni per il triplice omicidio e immediatamente indica agli inquirenti una possibile pista passionale legata alla presunta relazione di Angela. In fondo, non è forse compatibile con il profilo dell'assassino la figura di un medico? I corpi, infatti, sono stati disposti ella vasca per ritardare i fenomeni di putrefazione, operazione che solo un uomo con una formazione medica poteva mettere in pratica. Eppure a carico di Zarrelli ci sono altri elementi: un testimone riferisce di aver visto il giovane alla guida della Lancia Fulvia Berlina amaranto trovata con la batteria scarica in via Saverio Baldacchini il 10 novembre 1975 da una pattuglia della polizia.
Il movente
Perché il giovane Zarrelli avrebbe dovuto uccidere la zia e la sua famiglia? Il movente individuato dagli inquirenti è riconducibile allo stile di vita del ragazzo. Domenico è uno studente scapestrato, amante della dolce vita, delle donne e delle auto di lusso. È ricoperto di debiti ed e sempre in cerca di qualcuno che gli faccia un prestito. Proprio la zia Gemma era tra le persone che avevano più volte aiutato Domenico. Il caso sembra risolto: Mimmo Zarrelli ha ucciso lo zio adottivo in un raptus di ira dopo che questi gli aveva negato un prestito, ha eliminato le due testimoni e ripulito la scena. Una storia semplice. Qualcosa in questo quadro, però, non torna: Zarrelli non calza il numero 42 dell'impronta, non può guidare la Berlina a bordo della quale sarebbe stato visto perché la sua statura non glielo permette. In più, dichiara di avere un alibi: quella sera era al cinema a vedere "Amici miei". Per contro, restano alcune circostanze: Domenico ha dei graffi sulla mano compatibili con i segni di difesa, non ha un alibi confermato (gli addetti del cinema riferiscono di averlo visto la sera prima e non quella del delitto), ha un movente e potrebbe aver impresso quell'impronta taglia 42 nel sangue in un tentativo di depistaggio o che avesse un complice a cui era riferibile la traccia? Sulla bilancia processuale, però, gli indizi hanno il peso di una piuma e Zarrelli viene assolto per insufficienza di prove, con formula piena nel 1985. Nel 2006 l'avvocato Domenico Zarrelli è stato risarcito dallo Stato per danni morali e materiali con un milione e quattrocentomila euro.
Errore giudiziario o delitto perfetto?
Mentre il caso Zarrelli viene giudicato un clamoroso errore giudiziario, nel 2011 si verifica una sconcertante scoperta. Il procuratore aggiunto Giovanni Melillo ordina che vengano nuovamente analizzate tracce biologiche presenti sulla scena e prelevati da un bicchiere, delle cicche di sigaretta e un asciugamano macchiato di sangue. Nel 2014 arriva la conferma che quel Dna appartiene a Zarrelli e ad altri due soggetti non identificati che potrebbero avere agito in concorso con l'uomo. Secondo il principio del "ne bis in idem", non può essere processato una seconda volta con la stessa accusa. Gli stessi reperti che avrebbero costituito un importante punto di partenza per la riapertura del caso sono stati distrutti prima che il Gip potesse pronunciarsi sulla riapertura delle indagini. Il caso resta ancora oggi senza un colpevole.
La strage di via Caravaggio 42 anni dopo
La casa di via Caravaggio è stata smembrata e venduta. Oggi solo una piccola parte dell'appartamento di 184 metri quadri a Fuorigrotta – quella in cui quella notte furono massacrate le tre vittime – conserva la proprietà degli eredi di Domenico Santangelo. Lo stabile è rimasto pressoché uguale a com'era all'epoca dei fatti. Dopo 42 anni dalla strage, Napoli non ha dimenticato: il fantasma di quel massacro rimane vivido nella memoria di chi ha abitato quei luoghi.