Nedda di Verga alla Maturità 2022, il riassunto e il significato della novella
"Nedda. Bozzetto Siciliano" di Giovanni Verga è uno dei due brani scelti dal Ministero dell'Istruzione come traccia dell'analisi del testo (tipologia A) della prima prova scritta d'italiano alla Maturità 2022. Confermato il totonomi della vigilia: per gli studenti era quasi scontato che uscisse un brano dello scrittore siciliano, si cui quest'anno ricorre per altro il centenario della morte.
Ecco tutto quello che c'è da sapere su "Nedda. Bozzetto Siciliano": l'analisi, lo svolgimento, il significato e il tema completo.
Possibile analisi e spunti per lo svolgimento
"Nedda" è un bozzetto scritto da Giovanni Verga, pubblicato il 15 giugno del 1874 sulla "Rivista Italiana" e nello stesso anno dall'editore Brigola a Milano. L'opera è considerata erroneamente l'opera che segna il passaggio, nella poetica di Verga, al verismo, con la rappresentazione oggettiva e reale di una società in degrado.
Verga confronta l'umiltà, la timidezza e la rassegnazione dei personaggi a cui dà voce nel racconto con gli animali che invece rappresentano la pazienza e il silenzio, oltre alla mancanza di critica.
Tra le caratteristiche del testo, l'utilizzo da parte dell'autore di un narratore esterno come mezzo per narrare la vicenda.
Il significato di Nedda
La storia narrata nella novella è incentrata proprio su Nedda, una ragazza semplice e rassegnata che lavora come raccoglitrice di olive per raccogliere il denaro necessario a curare la madre. Ma dopo la morte di quest'ultima, Nedda, disperata, è sostenuta solamente dall'amore per Janu, contadino che lavora con lei.
Malato di febbre malarica, un giorno Janu cade da un albero e perde la vita, mentre Nedda aspetta la sua bambina.
La ragazza resta così sola, aiutata solo dallo zio Giovanni, e in preda alle ingiurie della gente. Alla fine del testo, Nedda dà alla luce la sua bambina, che però muore poco dopo essere venuta al mondo, perché non è in grado di allattarla. Infine, Nedda ringrazia la Madonna per aver fatto morire la figlia, risparmiandole la sofferenza della vita.
Il testo di Nedda
"Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana.
I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione.
Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando, o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi1 inferiori al còmpito dell’uomo.
La vendemmia, la messe , la raccolta delle olive, per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre.
L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle roccie infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. [ …].
Tre giorni dopo [Nedda] udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un’alta cima, e s’era concio3 a quel modo. – Il cuore te lo diceva – mormorava con un triste sorriso. – Ella l’ascoltava coi suoi grand’occhi spalancati, pallida come lui, e tenendolo per mano. Il domani egli morì. [ …].
Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casipola , al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido.
Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l’un dopo l’altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame.
Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l’uscio del casolare dietro al 56 cataletto che se ne andava, e s’era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota".