“Gli eroi son tutti giovani e belli”. Cantava e canta ancora il Maestro Guccini. Qualcuno, da un po’ di giorni a questa parte, direbbe anche che gli eroi sono “speciali e sorridenti”, riferendosi a Valerio Catoia, il 17enne di Latina con sindrome di Down che si è dimostrato campione di nuoto e nella vita, salvando una bambina che stava annegando sulla spiaggia della Bufalara, a Sabaudia. Una performance da manuale, proprio come il suo istruttore Roberto Calvana gli aveva insegnato prima di partecipare alle prime olimpiadi mondiali con atleti con sindrome di Down, a Firenze.
La notizia, bellissima, ha fatto il giro del web. La nota stonata però sono stati quei giornali che, (in)evitabilmente, hanno anteposto la sindrome alla persona, ogni volta. Una terminologia ancora sbagliata come “affetto da…”, oppure “nonostante la…”. Come se si trattasse di una vera e propria malattia che, come una zavorra, impedisse a Valerio di essere autonomo al punto da non potersi prendere cura degli altri, oltre ad avere una vita come ognuno. Perché, non smetterò di dirlo, un linguaggio scorretto non fa altro che alimentare una visione distorta e discriminatoria della disabilità, continuando a confinarla in qualcosa di “alieno” dal resto della società.
Si è dunque generato uno stupore nell’opinione pubblica, inconcepibile nel 2017 quando ci sforziamo ogni giorno di integrare e includere ogni tipo di diversità per vederla e rapportarcisi in modo spontaneo. In una società ideale, appunto, certe differenze dovrebbero rientrare in quel tanto odioso concetto di normalità, o meglio di “dato per scontato”, e quindi certi fatti dovrebbero diventare notizie di pura cronaca dove gli unici tratti distintivi sarebbero l'età, la provenienza, il lavoro svolto e qualche informazione di contorno.
Perché se da un lato un episodio del genere presta perfettamente il fianco a luoghi comuni di ogni tipo (“i ragazzi con sindrome di Down sono sempre felici”, “certo che non si arrabbiano mai”, “loro almeno restano sinceri e puri come i bambini”, “la cattiveria non sanno cosa sia!”), dall’altro lato emerge il bisogno di porre l’accento sulle questioni realmente importanti che, purtroppo, vengono spesso ignorate. Così, si dovrebbero ad esempio enfatizzare, oltre alle capacità della singola persona, l’ottimo lavoro che i genitori compiono, come in questo caso, e del quale si parla sempre troppo poco. Lavoro costante per sviluppare autonomia e indipendenza che genera, poi, risultati straordinari. Frutto di anni di “educazione” e socializzazione.
Che poi, diciamocelo, il problema reale non è di chi ha un cromosoma in più, ma di chi ce li ha tutti giusti ma non riesce ad apprezzare la straordinarietà di certi coraggi. Come la madre della bimba salvata, che si è allontanata dalla spiaggia subito dopo, senza nemmeno ringraziare il suo benefattore. D’altra pare, ognuno ha le proprie disabilità. E quelle umane restano sempre le peggiori.