Vaccino coronavirus, Garattini: “In Italia serviranno almeno 40 milioni di dosi”
La corsa per un vaccino che sia in grado di fermare il coronavirus Sars-Cov-2 procede a ritmi forsennati nei laboratori di ricerca: a neanche tre mesi dallo scoppio dell’epidemia a livello globale, è già iniziata la sperimentazione su piccoli gruppi di volontari, mentre procedono senza sosta le ricerche per lo sviluppo di nuovi farmaci e gli studi clinici sui medicinali per i pazienti con Covid-19. I primi risultati fanno ben sperare anche se restano ancora molte incognite, in particolare sulla risposta immunitaria. Non sappiamo, ad esempio, se gli anticorpi per il virus proteggono da una nuova infezione né ci sono dati certi sulla durata dell’immunità. Un rebus di difficile interpretazione per il quale abbiamo chiesto delucidazioni al professore Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, un gigante assoluto del panorama scientifico internazionale, farmacologo e autore di diverse centinaia di lavori pubblicati su riviste di ricerca di tutto il mondo.
Allora Professore, si parla tanto di vaccino ma ci sono molti dubbi sul comportamento di questo virus: ha senso percorrere questa strada?
In qualche modo, è una necessità. I dubbi non sono poi così tanti, nel senso che ci sono alcuni casi riportati secondo cui il plasma dei pazienti che hanno sviluppato la malattia agisce positivamente nei pazienti che hanno una malattia. E questo è un dato che può essere confortante. Esistono anche studi sulle scimmie che indicano, ad esempio, che se si inietta il virus, si sviluppa la malattia, e che se poi, dopo qualche giorno, si reiniettano grandi quantità di virus, gli animali stanno bene. Pare che questo sia stato osservato sul rhesus macaque e altre specie. E, anche se si tratta di un’indicazione che non riguarda l’uomo, essendoci però molte analogie, può essere confortante. Trovare il vaccino sarebbe, quindi, una via per risolvere in qualche modo la situazione e certamente portare un grande contributo alla soluzione di questa infezione che non è come tutte le altre, ma ha delle caratteristiche particolari.
Pare che il vaccino che si sta testando nel Regno Unito, all’Università di Oxford, sia partito dal lavoro su un altro coronavirus, il Mers-CoV. Come è stata sfruttata questa esperienza?
In verità, non ci sono delle pubblicazioni su riviste ufficiali, ma si tratta di rapporti che compaiono sulla stampa e agenzie di informazione, per cui dobbiamo prendere sempre tutto con il condizionale. Questo vaccino sarebbe rappresentato da proteine, che sono quelle dello Spike, cioè delle punte presenti in questo virus come in tutti i coronavirus, e questo permetterebbe, nel caso in cui il vaccino sia attivo, di impedire al virus di entrare nelle cellule e quindi di sopravvivere. Questo, in sostanza, è l’approccio di questo vaccino, ma ci sono molti altri vaccini in corsa, circa 50, con approcci differenti, per cui si spera che almeno uno possa arrivare al risultato. Ce n’è un altro che si sta sviluppando in Olanda, un altro in Israele, quello che si sta testando negli Stati Uniti che, superata la sperimentazione animale, è già nella prima fase degli studi clinici controllati nella quale si cerca di stabilire qual è la dose ben tollerata e se ci sono degli effetti collaterali. Insomma, si cerca di stabilire la sicurezza prima di tutto.
Allo stesso tempo, da quello che ho letto sulla sperimentazione nel Regno Unito, un gruppo più ampio di persone verrà sottoposto a questa fase, durante la quale si potrà già osservare se ci sarà la formazione di anticorpi, in quanto tempo si sviluppano, e così via. E poi, naturalmente, lo studio proseguirà su gruppi molto più numerosi, anche perché si dovrà stabilire se il vaccino è in grado di indurre immunità e quanto dura questa immunità. Intanto, ci saranno studi anche sulle persone che si sono ammalate, per vedere se hanno sviluppato anticorpi e, nel caso in cui siano presenti, quanto tempo resistono nell’organismo.
Parlando sempre della sperimentazione nel Regno Unito, la prima dose di vaccino è stata somministrata ai due ricercatori, Edward O'Neill e Elisa Granato. A entrambi saranno fatti periodicamente prelievi e controllata la temperatura. Ma come verrà determinata l’immunizzazione?
Man mano che si tratteranno le persone, se le cose andranno bene, da un lato si cercherà di aumentare la dose, dall’altro bisognerà seguire le persone trattate nel tempo per osservare cosa succede, sia dal punto di vista della salute generale, sia dal punto di vista della presenza di anticorpi. Si andranno quindi a misurare gli anticorpi neutralizzanti, cioè gli anticorpi che neutralizzano la crescita del virus.
Trovato il vaccino, a che percentuale di popolazione dovrà essere somministrato per vincere la battaglia?
Certamente, quanto più il trattamento è numeroso, tanto più avremo la possibilità di debellare il virus. Quella che si chiama “immunità di gregge”, cioè immunità di gruppo, è un’immunità che richiede varie percentuali, a seconda del vaccino. In generale, per molti vaccini, ha richiesto percentuali di trattamento di addirittura il 95% ma, per quanto riguarda questo vaccino, non possiamo ancora dirlo, perché non sappiamo quale sarà la sua efficacia.
Se, come molti dicono e viene riportato, arriverà entro la fine dell’anno, potrebbe però accadere che, per ragioni economiche ma anche nazionalistiche, il vaccino non sia disponibile per tutti, ma solo per il Paese in cui è stato sviluppato. E questo è un punto importante perché, avere il vaccino e non poterlo utilizzare, sarebbe un danno incredibile.
Se necessario, nel caso ci sarà un brevetto, i Governi dovranno arrivare a degli accordi per quelle che si chiamano le licenze obbligatorie. Vale a dire che, quando c’è un interesse di carattere pubblico, il brevetto può essere temporaneamente annullato per permettere la produzione delle quantità necessarie per quel determinato Paese. Anche perché il prezzo imposto potrebbe essere alto ei magari tanti Paesi non hanno le risorse per poterlo acquistare, con il rischio che diventino una fonte di ulteriori focolai e infezioni. Per le necessità di tutto il mondo serviranno miliardi di dosi e, parlando dell’Italia, dove ci sono industrie in grado di riprodurre il vaccino, serviranno molte decine di milioni di dosi. Siamo 60 milioni…
40 milioni di dosi su 60 milioni di abitanti?
Sì, certamente. Almeno. Se poi si tratterà di un trattamento obbligatorio oppure raccomandato, sarà una decisione di tipo politico.
Cosa si può fare prima arrivi un vaccino?
Potrebbero arrivare dei farmaci che sono attivi, cosa che sarebbe di più veloce attuazione per la terapia, non certo per la prevenzione. Ci sono molti studi in corso, quindi è un’altra possibilità. E speriamo, anche in questo caso, che qualcuno ci arrivi rapidamente. Magari, sarebbe già un risultato, sapere se molti dei trattamenti che si stanno facendo non sono attivi perché, viste anche le tossicità che comportano, si eviterebbero terapie inutili.
Si riferisce allo studio cinese sul remdesivir, l’antivirale contro le infezioni da virus come l’ebola che è stato utilizzato nei pazienti con Covid-19 e non ha prodotto un risultati?
È ancora presto per dirlo, anche perché questo studio cinese è stato un po’ criticato. Per fortuna ci sono parecchi studi in corso, anche in Italia, per cui abbastanza presto sapremo quali sono i risultati. Questi studi sono sul remdesivir, sul tocilizumab, che è un farmaco antinfiammatorio usato nell’artrite reumatoide, ci sono quelli sull’idrossiclorocochina, sulla colchicina, sull’eparina e dovrebbe partire anche uno studio sull’ivermectin, che è un farmaco antiparassitario per cui si è osservato un effetto antivirale in vitro. E ci sono molti altri farmaci in corso di sviluppo e sperimentazione, per cui speriamo che anche da questi venga fuori qualcosa.
Sarà più utile arrivare a farmaco efficace, magari anche nel trattamento dell’infezione da altri coronavirus, o alla formulazione di un vaccino specifico?
Ci vogliono tutti e due gli approcci. Dal un lato, se il coronavirus cambierà, se ci saranno mutazioni, sarà come per il vaccino per l’influenza perché, quando un vaccino è disponibile, è facile adattarlo a cambiamenti di mutazione. D’altra parte la disponibilità di farmaci è sempre molto importante per coloro che non si possono vaccinare per varie ragioni o anche nel caso in cui non ci si voglia vaccinare. Per cui le due strade vanno portate avanti contemporaneamente.