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Giuseppe Pedrazzini morto in un pozzo, ultime news

Uomo morto nel pozzo, la svolta dopo la confessione (a metà) della moglie: cosa succede adesso

Marta Ghilardini, moglie di Beppe Pedrazzini trovo morto in un pozzo, ha confessato. Che cosa accadrà adesso?
A cura di Anna Vagli
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La tragica fine di Giuseppe Pedrazzini è davvero destinata a diventare il giallo dell'estate. E questo lo si è agevolmente compreso sin dall'inizio. Ma, il crollo – non per me inaspettato – della moglie di Beppe squarcia inequivocabilmente il velo di Maya sui profili di responsabilità. Difatti, già una settimana fa inquadravo Marta Ghilardini come l’anello debole della famiglia. E, le dichiarazioni spontanee rese sabato dalla donna, cristallizzate ieri mattina, confermano quanto ampliamente preventivato. Del resto, chi ha a che fare con geografie criminali a stampo familiare, è in grado di decodificare i comportamenti di ciascuno fino ad anticiparne le possibili mosse.

Marta non ha fatto altro che attuare maldestramente una rimozione forzata del ricordo. Fino a qualche giorno fa, quando non ce l’ha fatta più. E non ce l’ha fatta più perché, in fondo, la tecnica dell’autoipnosi, è soltanto un rimedio temporaneo.

Con le sue dichiarazioni, il piano di figlia e genero è decisamente andato in frantumi. Sostanzialmente, una vera e propria deflagrazione. Una deflagrazione che, però, a mio avviso, è stata, ed è, a rallentatore. Ritengo infatti verosimile che la Ghilardini non abbia rivelato tutti i dettagli. Al momento si è limitata a raccontare che il marito sarebbe stato segregato in casa da gennaio e sarebbe morto tra le sue braccia, per cause naturali, l’8 marzo scorso. Dopodiché, sarebbe stato avvolto in un telo e gettato nel pozzo dalla figlia Silvia e dal genero Riccardo. La donna, quindi, avrebbe per il momento soltanto avvalorato la pista della soppressione del cadavere e della truffa ai danni dello Stato. Potrebbe, però, realisticamente non essere così.

Difatti, proprio parlando della moglie di Pedrazzini ci eravamo lasciati spiegando il perché, quando si verificano delitti in famiglia che coinvolgono più di due componenti, c’è sempre qualcuno – l’anello debole appunto – che, se messo alle strette, è in grado di fornire informazioni utili ai fini delle indagini. Questo perché, come sottolineato, è vero che la responsabilità si spartisce tra più soggetti, ma è altrettanto vero che c’è sempre chi, tra questi, ha giocato un qualche ruolo perché manipolato o perché indotto a farlo. Proprio come Marta Ghilardini. Non si tratta, in questo senso, di giustificarne il comportamento. Viceversa questa affermazione porta con sé un corollario. La donna, a mio avviso, non ha ancora rivelato tutto quello che sa. Analizzando il suo comportamento dal momento in cui è stato ritrovato il corpo di Beppe, è infatti lampante come la Ghilardini abbia progressivamente cercato di metabolizzare quanto accaduto. Lo ha fatto parlando, seppur in maniera (apparentemente) fuggitiva con i giornalisti. Allontanandoli, ma mai sottraendosi all’assalto di cronisti ed inviati. Ha snocciolato mezze verità. E, nel farlo, ha in tutti i modi cercato di convincere prima di tutto se stessa della veridicità di quanto raccontava. Per spirito auto conservativo. Perché, a differenza di altri contesti, è difficile sfuggire al tribunale della coscienza.

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Per spirito conservativo, dicevo. Lo ha fatto recandosi al funerale e accettando di essere emarginata dalla famiglia. Accettandolo per onorare, a suo modo, la memoria del marito. Inevitabilmente corrosa, e c’è da crederlo, da un senso di colpa devastante. Ciò, ad ogni modo, è bene ribadirlo, non serve a giustificare un atteggiamento comunque integrante diverse fattispecie di reato. Al contrario, è funzionale a ribadire che, la donna, ha ancora molto da raccontare sulla morte di Pedrazzini. E lo farà non appena riprenderà fiato. Giuseppe che, in attesa degli esiti dell’esame autoptico, è facile ipotizzarlo, potrebbe non essere morto per cause naturali.

Il movente

Chi, come me, opera ormai da anni sulla scena del crimine, porta nel bagaglio esperienziale una grande consapevolezza: uccidere costituisce l’unico modo per risolvere un problema. E non rileva se a noi, quel problema, risulti futile o fondato. Ciò che conta davvero è solo il punto di vista dell’assassino. Si uccide prevalentemente per soldi, ma anche per vendetta, per convenienza o per sesso. Un bisogno impellente di eliminare fisicamente chi si frappone al raggiungimento di un obiettivo.

Ora, con questa premessa, non si vuole condannare senza appelli e per omicidio Marta Ghilardini, Silvia Pedrazzini e Riccardo Guida. Tuttavia, è possibile ragionare acutamente in termini di movente dopo le dichiarazioni della moglie. Quando è necessario risolvere casi controversi come questo bisogna tener presente che due sono i binari investigativi. O almeno dovrebbero esserlo. Il primo è quello rappresentato dall’investigazione tradizionale, e guidato quindi dai principi della logica, il secondo è incarnato dall’investigazione scientifica. Nel caso di specie, dalle risultanze dell'esame autoptico. Dunque, dovendo decorrere il termine di 90 giorni per acquisire riscontri biologicamente dimostrabili, possiamo ragionare seguendo la logica.

Fino ad oggi si è supposto che i familiari avessero nascosto il corpo di Beppe nel pozzo allo scopo di percepirne la pensione. La pensione di un agricoltore che, però , ammontava a qualche centinaia di euro. Anche se, secondo i familiari, ne percepiva un’altra a titolo di invalidità. Vero è, come ho evidenziato poc’anzi, che ciò che conta davvero è il punto di vista dell’autore di un delitto. Ma, è altrettanto vero che, a mio avviso, la posta in gioco era molto più ampia. E le mire, di Silvia e Riccardo, non erano tanto la pensione quanto piuttosto i suoi possedimenti agricoli. E questo è un dato che, a mio avviso, trova conferma nella decisione di mettere in vendita un terreno appartenente a Beppe, alla cifra di 120 mila euro, fin dal primo momento in cui l’uomo risultava scomparso. Dunque, non proprio i 500 euro della pensione. Sicuramente, quei soldi, erano soldi in più (e non dichiarati) che entravano nelle loro tasche.

Ma l’attività di intascare mensilmente quella somma era finalizzata, sempre dal mio punto di vista, a non destare ulteriori sospetti. Non ha costituito però né il fine ultimo né il fattore scatenante. Insomma, il mancato ritiro della pensione, si ribadisce, avrebbe inevitabilmente ed ulteriormente gettato ombre sulla scomparsa dell’uomo. Scomparsa, peraltro, mai denunciata da nessuno dei coabitanti. Aggiungiamo poi che, la mancata riscossione di un minimo di tre rate, costituisce causa di eliminazione della pensione.

Ma c'è un altro punto che merita attenzione. Se veramente Beppe fosse morto per cause naturali, perché occultarne il corpo? Difatti, con l'apertura della successione, tutti i suoi beni sarebbero confluiti nel patrimonio ereditario proprio di figlia e moglie. Volendo essere precisi, anche in caso di un'ipotetica diversa disposizione testamentaria, la legge avrebbe tutelato queste ultime proprio in virtù del fatto che si tratta di soggetti legittimari. Quindi, comunque, avrebbero percepito una quota di eredità o comunque acquisito altri diritti nella successione. Per questo, dal mio punto di vista, la morte di Beppe non ha niente a che vedere con le leggi della biologia.

D’altra parte, che il movente fosse economico, non ci sono mai stati dubbi. Dal primo momento in cui il caso è diventato mediatico, figlia e genero di Giuseppe, non hanno fatto altro che parlare del rogito bloccato a causa delle indagini e del disagio provato nel dormire in macchina. Mai una parola per il padre defunto sottolineando come, quella morte, non abbia avuto per loro alcun impatto emozionale. Dato, quest’ultimo, confermato anche nell’atteggiamento assunto per l’estremo saluto all’uomo.

Difatti, pur imponendo l’obbligo di dimora cui sono sottoposti l’impossibilità di varcare il confine del comune, avrebbero potuto richiedere al Gip di partecipare. Una facoltà che, pur rientrante nelle loro spettanze, non è stata esercitata. Doveroso non tralasciare neppure il dettaglio della pec partita da un computer di casa Pedrazzini alcune ore prima del ritrovamento del corpo. Poche righe finalizzate a depistare totalmente le indagini. Il presunto mittente, infatti, era l'uomo scomparso che faceva sapere di stare bene, ma di non voler essere cercato.

Quindi, vi chiederete, che cosa accadrà adesso? Sicuramente, Silvia e Riccardo verranno convocati in Procura per essere sentiti a loro volta. Faccio fatica a credere che anche figlia e genero adotteranno un comportamento collaborativo. Di certo, se di omicidio si è trattato, non interverrà alcuna confessione da parte loro. Chi, invece, ha ancora molto da raccontare è Marta Ghilardini. E c’è da scommettere che lo farà.

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Dottoressa Anna Vagli, giurista, criminologa forense, giornalista- pubblicista, esperta in psicologia investigativa, sopralluogo tecnico sulla scena del crimine e criminal profiling. Certificata come esperta in neuroscienze applicate presso l’Harvard University. Direttore scientifico master in criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica
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