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Ecco i cinque motivi per cui l’Università italiana non funziona

Reputazione accademica e qualità dell’insegnamento sono solo due dei criteri adottati nella valutazione degli atenei internazionali. L’Italia, da questo punto di vista, arranca e Nunzio Quacquarelli, direttore di una delle società internazionali che si occupano dei ranking universitari, chiarisce il perché.
A cura di Biagio Chiariello
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Le Università italiane sembrano ormai destinate a restare negli ultimi posti nelle classifiche internazionali per importanza e qualità. Sulla questione è intervenuto, in un’intervista al Corriere della Sera, Nunzio Quacquarelli, britannico di origine italiana, direttore di una delle società internazionali che si occupano dei ranking universitari. Guardando all'ultima edizione del QS World University Rankings, i dati sono impietosi: il prima ateneo italiano classificato è Bologna, al 188mo posto, seguono varie altre sedi di pregio comela Sapienza di Roma (196esima) e il politecnico di Milano (230esima posizione); quarta l’Università degli Studi di Milano (235esimo posto), quinta Pisa (259esima).

 Perché siamo così bassi in classica? I motivi sono fondamentalmente cinque, legati ai criteri che queste società utilizzano per stilare le graduatorie. Innanzitutto, per permanere nelle zone alte le università devono essere note alla comunità accademica: si parla proprio di "reputazione accademica" e pesa per un buon 50%. E siccome gli atenei italiani- spiega Quacquarelli – non sono molto bravi a "fare rete", è difficile che in America o in Asia ci siano tante persone che sappiano che esistono quelle università a Roma o Milano, piuttosto che a Napoli o Bologna, e su cosa stiano lavorando. Un altro 20% è dato dalla qualità dell’insegnamento. "Per ottenere dati comparabili a livello globale ci basiamo sulla ratio docenti-studenti, indicativa dell’attenzione agli studenti e della capacità dell’università di investire" dice l'esperto. Terzo criterio, le citazioni degli articoli di ricerca prodotti dagli accademici italiani, e sempre che pure su questo fronte non siamo messi bene. C'è poi la reputazione presso i datori di lavoro (la cosiddetta employability): "27mila recruiters interpellati nel mondo ci hanno spiegato da quali università preferiscono assumere e perché", dice Quacquarelli. Ultimo criterio: quantità di docenti, di studenti internazionali e di visiting professors.

Alla fine però qualcuno potrebbe anche dire: "ma a noi delle classifiche che ce ne importa?". Domanda alla quale risponde QS: “Per semplificare, si può dire che noi mettiamo a fuoco criteri rilevanti per gli studenti: la proporzione tra docenti e studenti, l’apertura internazionale, il riconoscimento dei datori di lavoro”. In sostanza, questi dati non sarebbero da poco conto, perché vi aiuterebbero a individuare le università in cui è migliore la qualità dello studio e che portano più velocemente a un inserimento nel mondo del lavoro". Insomma, grazie a queste graduatorie si dovrebbe poter individuare le università in cui si studia meglio e quelle che conducono più velocemente al lavoro. Alla fine, però, come abbiamo visto nei giorni scorsi, sono molti gli studenti che si laureano in Italia e poi se ne vanno a lavorare fuori. Il motivo è tutto economico.

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