“Nel momento in cui la crisi climatica diventerà un problema economico, non potremo più permetterci di ignorarla”. Me lo disse nel 2019 Mohamed Nasheed, primo presidente della Repubblica delle Maldive, e io allora pensai che avesse ragione. Oggi sono costretto a ricredermi: la crisi climatica è un problema economico già da diversi anni e ciò nonostante non viene ancora affrontata per l’emergenza globale che è.
Questo martedì uno studio condotto dall’Università di Oxford ha rivelato come una rapida transizione alle rinnovabili consentirebbe di risparmiare, di qui al 2050, almeno 12mila miliardi di dollari. Non solo, i calcoli presentati dall’equipe di ricercatori mostrano che le stime che sono circolate finora sul costo della transizione energetica erano decisamente pessimiste, al punto da scoraggiare gli investimenti che avrebbero consentito un’accelerazione cruciale verso la decarbonizzazione del settore.
L’uscita di questo report dovrebbe dunque regalarci un po’ di ottimismo, e magari dissipare le nuvole nere che si raggrumano all’orizzonte ogni volta che proviamo a immaginare come portare a termine una transizione rapida in una situazione di crisi energetica e geopolitica come quella che stiamo attraversando. Ma come abbiamo visto, considerando gli attori (e le potenze) in gioco, sbarazzarsi di un sistema incardinato all’economia fossile è incredibilmente complicato.
Più è rapida la transizione, maggiore il risparmio
Se andiamo a vedere l’andamento del costo di produzione relativo alle varie fonti di energia negli ultimi 140 anni, ci renderemo conto che se nel caso di carbone, petrolio, gas e nucleare, al netto delle oscillazioni legate all’inflazione, le curve tendono ad assestarsi attorno a una forbice ristretta di valori, nel caso di solare, eolico, idroelettrico e della produzione di batterie si registrano vere e proprie picchiate. Questi dati risultano ancora più significativi se confrontati con quelli relativi alla distribuzione e l’implementazione delle tecnologie rinnovabili nello stesso lasso di tempo: i combustibili fossili hanno registrato una crescita moderata, mentre l’utilizzo del fotovoltaico e dell’eolico mostrano curve ripidissime, paragonabili a quelle registrate dal nucleare negli anni ’60 e ’80 (con la differenza che il costo dell’energia nucleare è rimasto sostanzialmente inalterato).
Insomma, dal 1880 a oggi, ogni anno il prezzo delle rinnovabili è sceso del 10% in media e il loro utilizzo è aumentato a ritmi analoghi: “La combinazione di costi esponenzialmente decrescenti e di un utilizzo esponenzialmente crescente è qualcosa di totalmente inedito, che va a segnare uno scarto con qualunque trend riscontrato in passato nel campo delle tecnologie energetiche” si legge nello studio. Utilizzando un modello probabilistico, gli autori dello studio hanno calcolato che nel giro di 10 anni le principali fonti rinnovabili risulteranno più convenienti di quelle fossili; non solo, più veloce sarà la transizione energetica, maggiore sarà il risparmio ottenuto. Praticamente, l’opposto di quanto recita l’adagio dominante.
“La conclusione principale che possiamo trarre” ha dichiarato alla BBC Doyne Farmer, uno degli autori dello studio “è che dovremmo procedere a velocità massima nella transizione energetica, perché è la soluzione più economicamente conveniente".
Per spiegare come ciò sia possibile, gli autori calcolano che i grandi progetti infrastrutturali hanno tendenzialmente cicli di vita che oscillano tra i 25 e i 50 anni, il che significa che ogni anno è necessario sostituirne tra il 2% e il 4% della capacità energetica. Considerando, poi, che la domanda energetica avrà con ogni probabilità una crescita annua del 2%, sarebbe possibile, in linea teorica, riqualificare gran parte del sistema energetico attuale nel giro di 20 anni.
La decentralizzazione fa paura solo alle aziende fossili
A questo punto sorge spontanea una domanda: se la transizione energetica è davvero così conveniente, perché la continuiamo a rimandare? Esistono diverse ragioni, di tipo politico, economico e culturale, ma più o meno tutte sono riconducibili all’ostinata resistenza delle aziende fossili. Perché se è vero che una transizione ecologica rapida consentirebbe alle varie nazioni di risparmiare migliaia di miliardi, è anche vero che esiste un settore che da un simile cambio di paradigma potrebbe solo rimetterci, a prescindere da quanto deciderà di mettersi in scia con il cambiamento.
Dobbiamo tenere conto del fatto che i combustibili fossili non si sono imposti come standard soltanto perché garantivano rese energetiche molto alte, ma anche perché potevano essere trasportati e venduti con relativa facilità; e soprattutto, perché consentivano una solida centralizzazione della distribuzione energetica. Il risultato è che il sistema energetico odierno è pesantemente centralizzato: ci sono centrali a carbone, o a gas, o nucleari, che producono energia che successivamente viene distribuita ai consumatori. Il costo di produzione dell’energia costante e l’espansione relativamente lenta delle nuove centrali è stato un fattore utile, per la crescita del sistema fossile, perché solo un numero ristretto di attori poteva permettersi di produrre e vendere energia. Le energie rinnovabili, invece, grazie ai loro costi in picchiata e la loro diffusione esponenziale, prospettano una progressiva decentralizzazione del sistema energetico. Questo è particolarmente vero per il fotovoltaico, che già oggi, grazie alle installazioni domestiche, consente ai singoli consumatori di diventare “prosumer”, ossia allo stesso tempo produttori e consumatori di energia elettrica.
Per capire che tipo di rivoluzione abbiamo (potenzialmente) alle porte, prendiamo in considerazione l’Africa: ad oggi il continente con la maggiore disponibilità di energia solare può ricavare da essa solo 5 gigawatt, meno dell’1% del totale. Una diffusione capillare della tecnologia fotovoltaica renderà possibile creare griglie elettriche decentralizzate e di minore caratura, che consentirebbero alle zone remote oggi tagliate fuori dalla griglia centralizzata di avere un approvvigionamento elettrico.
Un approccio di questo tipo sarà fondamentale anche in vista di una transizione che, per forza di cose, punterà a un mix energetico sempre più sbilanciato verso le rinnovabili, ma richiede nuovi sistemi di gestione, che possono essere reti elettriche automatizzate (smart-grid) che permettano di gestire utenti che a loro volta immettono l’energia prodotta dai loro impianti nel sistema; insomma: ci vogliono investimenti, e chi oggi detiene il grosso del potere economico in ambito energetico (sempre loro, le aziende del gas, petrolio e carbone), non ha così fretta di depotenziare il proprio ruolo in un sistema che ancora oggi garantisce profitti mastodontici.
Siamo pronti a una rivoluzione energetica?
Per questo, invece che di transizione energetica, termine che suggerisce un cambiamento graduale e lento, bisognerebbe cominciare a parlare di vera e propria rivoluzione. E però, come spesso accade quando si prospettano cambi di paradigma trasversali, ecco levarsi le voci infastidite di chi ritiene questa prospettiva una mera utopia. Ma ancora una volta chi urla “utopia” finisce per mostrarsi meno realista di quanto vorrebbe credere.
“Sembrano non esserci grossi ostacoli che impediscano di implementare le tecnologie necessarie a una transizione rapida, in termini di consumo di suolo e di acqua, capacità manifatturiera, materiali grezzi, ritorno energetico sull’energia investita, o integrazione del sistema – si legge nello studio pubblicato sulla rivista Joule -. Ciò nonostante, esistono ostacoli di natura istituzionale, soprattutto se vogliamo mantenere gli attuali trend di crescita nel prossimo decennio, saranno probabilmente necessarie politiche che impongano standard di portafoglio e/o stimolino la domanda".
Attenzione: il fatto che una transizione ecologica rapida garantisca un maggiore risparmio di una più lenta non significa che questa sia la strada meno costosa: esistono soluzioni che sul breve termine possono risultare più convenienti, come quelle che prevedono di mantenere il gas fossile nel mix di transizione, ma si tratta di soluzioni che allontanano il traguardo della neutralità carbonica; e lo studio di Farmer e colleghi dimostra che allo stato attuale, chi continua a sostenere che la transizione ecologica sia troppo costosa per essere realizzata rapidamente, dice una sonora menzogna.
I ricercatori hanno previsto che l’aumento della capacità di rete arriverà a toccare, nel 2050, una spesa annua di 670 miliardi di dollari, contro i 530 miliardi previsti in uno scenario senza transizione. Tuttavia, una transizione rapida ci consegnerebbe un sistema energetico il cui costo totale si assesterebbe sui 5900 miliardi di dollari annui, mentre senza transizione questa quota aumenterebbe fino a 6300 miliardi.
“La ragione essenziale per cui la transizione rapida è più economica di quella lenta è che i risparmi sui costi dovuti all'energia più economica si realizzano prima – si legge ancora nel paper -: una diffusione più rapida aumenta la probabilità di un rapido progresso delle principali tecnologie verdi, in modo che i risparmi maturino più a lungo”.
La crisi climatica ci sta già costando migliaia di miliardi
Nel frattempo, la crisi climatica continua ad aggravarsi. Proprio questa settimana, un nuovo report dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha rivelato che le misure adottate sinora per ridurre le emissioni sono state sostanzialmente ininfluenti, e che ci stiamo addentrando in “territori inesplorati di distruzione” per utilizzare le parole del segretario ONU Antonio Guterres.
Il pianeta continua a riscaldarsi a ritmo sostenuto, causando morti, devastazioni e danni sempre più ingenti. Il fatto che la crisi climatica sia già un problema economico, per riprendere le parole di Nasheed citate a inizio pezzo, appare palese anche dai costi che già oggi siamo costretti ad affrontare: negli ultimi 20 anni, i danni causati da eventi climatici estremi sono aumentati dell’800%, arrivando nel 2021 a toccare quota 329 miliardi di dollari, praticamente il doppio di quanto le nazioni più ricche hanno stanziato per quelle più vulnerabili (che ricordiamo, sono anche quelle meno responsabili delle emissioni che stanno causando la crisi).
Ecco, se teniamo conto anche dei danni economici che una transizione rapida consentirebbe di evitare, allora i risparmi potenziali aumentano a dismisura: ai 12mila miliardi di dollari citati a inizio pezzo andrebbe ad aggiungersi una quota che oscilla tra i 30mila e i 770mila miliardi.
Da quanto analizzato, insomma, risulta chiaro che una transizione energetica ed ecologica drastica e radicale non sia solo una soluzione sensata dal punto di vista etico ed ecologico, ma anche dal punto di vista strettamente economico. Si tratta di decidere quanta ricchezza vogliamo perdere di qui ai prossimi decenni, per continuare a gonfiare le tasche di chi non ha altro interesse se non il profitto privato.