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Florin, una casa dopo 12 anni nel campo rom: “Adesso voglio aiutare chi vive ancora lì”

Vent’anni, è arrivato quando ne aveva sei a Roma dalla Romania. In questi anni ha vissuto in tre campi nomadi della Capitale, luoghi che “non potranno produrre mai nulla di buono”. Adesso abita in una casa ed è un attivista per i diritti umani: “Quando ho raccontato che in Italia i rom vivevano nei campi le persone mi guardavano in modo strano. Mi chiedevano se fosse come ai tempi di Hitler. Erano davvero molto scioccati”.
A cura di Claudia Torrisi
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Florin ha appena finito il suo turno alla cooperativa per disabili di Tor Bella Monaca dove sta svolgendo il servizio civile. Dopo il lavoro è rientrato a "casa", e mi confessa che ancora fa fatica ad abituarsi all'idea. Per dodici dei suoi vent'anni e fino a poco tempo fa, infatti, ha vissuto in un campo nomadi di Roma – anzi, per la verità in più di uno. La sua famiglia è di etnia rom, è partita dalla Romania quando lui aveva sei anni ed è arrivata nella Capitale con due bambini piccoli, stabilendosi prima in un insediamento abusivo nell'area di villa Troili, e poi al campo della Cesarina, sulla Nomentana. "In realtà io e mio fratello non capivamo bene perché dal vivere in una casa in Romania eravamo passati all'abitare in una baracca", racconta Florin, che è stato poi ulteriormente trasferito al campo di via di Salone, uno dei "villaggi della solidarietà" manifesto del fallimento del Piano nomadi della giunta Alemanno. Di quell'insediamento, nel rapporto "Campi Nomadi Spa" si legge:

lo spazio è stato circondato da una recinzione metallica e provvisto di un sistema di video-sorveglianza con l’utilizzo di 32 videocamere disposte lungo il perimetro dell’insediamento. Le condizioni strutturali dell’insediamento appaiono in cattivo stato. Le abitazioni consistono in case-container di tre differenti dimensioni. Gli spazi interni risultano insufficienti e asfittici.

"Tre anni fa sono venuti al campo operatori dell'Associazione 21 Luglio dandoci dei fogli da compilare per il sostegno all'abitazione", spiega Florin, che ammette che in famiglia solo la madre era convinta nel voler portare avanti la procedura: "Mio padre la prendeva in giro, io ero convinto che avrei vissuto in un campo ancora per molto tempo. Quando è arrivata la notizia che avremmo avuto una casa non riuscivamo a crederci. Anzi, ci abbiamo creduto solo quando ci hanno consegnato le chiavi".

A differenza di ciò che emerge dalla narrazione prevalente sui rom, la famiglia di Florin una casa l'ha sempre cercata. "Vivere nel campo non ci è mai piaciuto, ma non riuscivamo a permetterci gli affitti", racconta. La dinamica del campo è stata subìta, così come accade con la maggior parte di chi si ritrova ad abitarci. "Chi ha progettato questi posti l'ha fatto pensando che rientrasse nella nostra cultura, ma è totalmente sbagliato. Il campo ti blocca: blocca la comunicazione con le altre persone, blocca l'integrazione", spiega Florin.

Le difficoltà maggiori di crescere nei campi nomadi riguardano proprio i rapporti con l'esterno, con quello che esiste fuori dal campo. "Quando andavo a scuola – racconta – i problemi sorgevano, ad esempio, quando facevo il compleanno. Invitare gli amici, anche solo per fare i compiti, diventava complicato. I miei compagni stavano tutti in delle case – belle o brutte – io in roulotte o container. Non mi andava di essere giudicato per quello".

Florin è critico verso "l'assistenzialismo con cui viene trattata la questione rom". Ad accompagnare i ragazzini a scuola era un pulmino di una cooperativa – che li riportava poi indietro. "Arrivavo tardi e uscivo prima – spiega – spesso perdevo anche la lezione. Mi ricordo che alle medie la professoressa mi ha detto che se continuavo ad andare con il pulmino e perdere ore mi avrebbe bocciato. Io per qualche mese sono andato a piedi. Ma dovevo prendere troppi mezzi, dovevo alzarmi prestissimo. Abitavo a Salone e non passavano mai".

Il campo, come la maggior parte dei villaggi attrezzati, infatti, si trova in una posizione completamente decentrata. Sempre dal rapporto "Campi Nomadi Spa"

A causa della posizione isolata, al di fuori del Grande Raccordo Anulare, raggiungere i servizi essenziali dall’insediamento risulta estremamente difficoltoso soprattutto per quanti non dispongono di mezzi di trasporto. La farmacia più vicina dista 4,2 km, l’ospedale più vicino 10,6 km, l’ufficio postale 2,7 km, il negozio di generi alimentari 3,2 km.

Nonostante la condizione di difficoltà data dal vivere nel campo, Florin si è dato parecchio da fare. Tramite l'Associazione 21 Luglio a frequentato un corso per diventare attivista per i diritti umani – viaggiando e partecipando a eventi – ha fatto volontariato e lavorato come aiuto cuoco. In futuro vorrebbe "continuare a fare l'attivista. Una volta che lo diventi è per tutta la vita. Vorrei poter aiutare le persone che come me hanno avuto difficoltà, ad esempio chi continua a vivere nei campi".

Secondo i dati, solo il 3% dei rom presenti in Italia "risulta perseguire uno stile di vita effettivamente itinerante". Sono solo in 40 mila ad abitare nei campi. Il resto vive nelle case e in molti le desiderano. "Quando dico che abbiamo bisogno non di assistenzialismo ma di autonomia – spiega – mi riferisco a tante cose. Molti dicono che i rom stanno nei campi perché così possono non pagare le tasse. Io ti dico che pagare le tasse è un dovere, ma per me sinceramente è stato un diritto che fino a oggi mi è stato negato".

La dinamica del campo incide anche sulla questione lavoro. Fino al trasferimento, sui documenti di Florin era riportata via di Salone – che a Roma è conosciuta per il campo. Nonostante mandasse decine di mail con il suo curriculum, non riceveva mai risposta. "Un giorno – racconta – ero insieme alla persona che mi ha aiutato a cercare lavoro e mi ha consigliato di provare a cancellare dal cv la via e metterne un'altra. L'ho fatto e ne ho messa una che si trova più o meno da quelle parti. Mi sono arrivate tantissime mail per colloqui. Mi veniva da ridere, però alla fine non mi sono presentato a nessuno di questi. Perché non ero io, non ero quella persona e non aveva senso".

La propaganda contro i rom è un evergreen duro a morire. Secondo il Pew research center, l’Italia è il paese europeo dove l’intolleranza verso i rom e i sinti è più diffusa. Prova ne è che l'avvicinarsi delle amministrative nella Capitale ha fatto riesplodere la questione, tra invocazioni di ruspe e retorica sulla delinquenza dell'etnia. Su questo Florin non ha dubbi: "Chi punta tutto sui rom lo fa usando le paure della gente, promettendo cose che non sono vere. Anni fa politici hanno vinto le elezioni dicendo che avrebbero mandato via i rom, e invece la situazione è questa. Non penso sia una questione di pregiudizi, ma di disinformazione. Chi dà un'informazione corretta oggi? Mi sembra che di rom si parli in casi spiacevoli o quando Salvini va tra le baracche". E poi, aggiunge, "bisognerebbe anche finirla con questa storia dei campi", che "non potranno produrre mai nulla di buono".

E invece l'Italia è il "paese dei campi" – per cui rischia una procedura d'infrazione. Scrive l'Associazione 21 Luglio che "la costruzione e la gestione dei campi rom continua a essere un'eccezione italiana nel quadro europeo" che viola sistematicamente i diritti umani. In uno scambio internazionale con ragazzi da ogni parte d'Europa a Berlino, Florin si è trovato a descrivere la situazione italiana: "Quando ho raccontato che in Italia i rom vivevano nei campi le persone mi guardavano in modo strano. Mi chiedevano se fosse come ai tempi di Hitler. Erano davvero molto scioccati".

A fine gennaio 2016 il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa ha inviato una lettera a Matteo Renzi per esprimere la "preoccupazione" per le condizioni "al di sotto degli standard in cui vivono i rom nei dintorni di Roma" e per "la segregazione che mina seriamente le possibilità per gli abitanti di ricevere istruzione, avere accesso al lavoro, interagire con persone non rom e integrarsi nella società".

A parole sembra che la necessità di chiudere quei ghetti etnici che sono i campi rom sia stata recepita. Stando ai fatti, però, il Comune di Roma ha pubblicato un nuovo bando da 5 milioni di euro per la gestione dei villaggi attrezzati fino al 31 dicembre 2017, sostanzialmente con le stesse modalità di sempre – e di cui le associazioni chiedono la revisione.

"Mi ricordo che una volta a via di Salone si era rotto un cartello e hanno speso migliaia di euro per ripararlo. Non aveva senso, mi è sembrato uno spreco di soldi che potevano essere utilizzati in altro modo", racconta Florin. Come? "Per esempio per l'integrazione. Per farci vivere una vita normale".

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