C’è una tendenza nuova che a poco a poco sta prendendo piede nel panorama politico internazionale: com’era tutto sommato prevedibile, alla fine la questione climatica sta permeando anche in quelle aree politiche che fino a poco tempo fa erano dei baluardi di negazionismo e inattivismo. Non mi riferisco tanto alle frange della destra estrema, quanto ai partiti di centro e della destra moderata.
L'esempio più lampante viene dall'Australia, dove da alcuni anni la Coalition di centrodestra va perdendo pezzi, indebolita da una fuga di parlamentari che trovano ormai inaccettabili le posizioni di retroguardia sulle questioni ecologiche. Questo cambio di tendenza è diventato palese nel luglio del 2022, quando il governo conservatore di Scott Morrison ha ceduto il posto a quello laburista (e più eco-consapevole) di Anthony Albanese, il parlamento di Canberra ha accolto 19 deputati che portano avanti le istanze economiche tipiche dei partiti conservatori e istanze ecologiche tipiche di quelli progressisti. Si fanno chiamare "teal indipendents", un riferimento al colore che hanno scelto per la campagna, una via di mezzo tra il blu dei conservatori moderati e il verde dei tradizionali partiti ecologisti (fatto curioso: la traduzione italiana del colore "teal" è "foglia di tè", ma anche "petrolio"). Sono relativamente pochi, per quanto comunque cinque volte più numerosi dei deputati verdi, ma nel nuovo parlamento di Canberra hanno spesso un ruolo decisivo, visto che i laburisti di Albanese hanno una maggioranza di appena due seggi.
Naturalmente, questa spaccatura tra conservatori vecchia maniera e conservatori eco-consapevoli non è unicamente australiana: anche in altri paesi nei partiti di centrodestra stanno guadagnando quota correnti più ecoconsapevoli che, pur mantenendosi su posizioni conservatrici, non scadono necessariamente nel populismo reazionario. Il caso australiano però è interessante perché mostra una virata brusca, per quanto tutt’altro che inattesa. Teniamo conto, dopotutto, che negli ultimi anni la crisi climatica ha mostrato un'accelerata decisa, i suoi effetti sono più tangibili, e con essi gli svantaggi economici che l'inazione degli ultimi decenni sta comportando. Era perciò prevedibile che, a un certo punto, anche quei partiti che a lungo si sono rifiutati di prendere il problema sul serio, comprendessero che il decennale flirt con il negazionismo fosse un'arma a doppio taglio. Dal momento che la crisi climatica è un problema sistemico, che sta cambiando profondamente ogni settore della nostra esistenza, ignorarlo o sminuirne l'importanza può funzionare a livello elettorale, ma porta quei programmi ad essere inapplicabili anche sul medio o sul breve termine.
Purtroppo, questa presa di contatto con la realtà da parte dei partiti conservatori e moderati deve ancora diffondersi in modo trasversale. Lo dimostra la situazione italiana, dove molti si stanno presentando alla tornata elettorale europea con programmi che rasentano il negazionismo.
Un'ucronia tutta italiana
Dall'ottobre del 2022, quando il governo di Giorgia Meloni si è insediato, ho spesso l'impressione di vivere in un'ucronia. A giudicare da come opera e come si pone, il governo italiano sembra comportarsi come se il nostro paese fosse situato su una tempolinea in cui il riscaldamento globale non ha mai creato veri problemi. E dire che negli ultimi anni il nostro territorio non è stato risparmiato da ricadute climatiche gravi: le alluvioni nelle Marche e in Emilia Romagna, il crollo della Marmolada, gli incendi incontrollabili in Sicilia e in Sardegna, le siccità devastanti, un settore agricolo ridotto allo stremo da un aumento record di eventi estremi e dall'impoverimento del suolo. Tutte tessere di un mosaico preoccupante, che tuttavia buona parte della nostra classe politica si rifiuta di racchiudere nella stessa cornice. Ma fosse solo quello. Mentre l'Italia viene flagellata dall'emergenza ambientale, invece di prendere atto della situazione, e sviluppare politiche mirate di mitigazione e adattamento, il governo si perde in lunghi bracci di ferro in sede Europea per salvare i motori endotermici, per contrastare la legge sul ripristino degli ecosistemi, per chiedere (e ottenere) proroghe sui limiti di inquinamento urbano, il tutto mentre si batte il petto sventolando un vago quanto obsoleto Piano Mattei, e puntando un futuro alternativo in cui l’Italia avrebbe il ruolo strategico di hub europeo per il gas fossile.
Questo distacco dalla realtà trova ahimè corrispondenza nei programmi elettorali di molti partiti, e non solo a destra. Sia nei programmi della destra che in quelli del centro moderato, a farla da padrone è lo spauracchio del green deal, bollato inevitabilmente come “ideologico”, lasciando intendere che le politiche europee sulla transizione ecologica siano voli pindarici dettati dal puro idealismo, che metterebbero a repentaglio le nostre industrie e la nostra agricoltura, andando a minacciare pilastri di un non ben specificato stile di vita italiano, condannandoci a un futuro di impoverimento individuale e generale.
Ora, che la politica in periodo elettorali utilizzi il pennarello grosso è prevedibile, e anche giustificabile per certi versi, ma il problema non è che questi slogan siano esagerati, è che sono del tutto lontani dalla realtà. In questi programmi si parla di “buon senso” e di “approccio realistico” alla transizione, quando il realismo e il buonsenso dovrebbero presupporre una conoscenza dei dati reali sulla crisi che stiamo attraversando e del ventaglio di soluzioni applicabili che abbiamo a disposizione. E i dati parlano chiaro: per la situazione in cui ci troviamo, le politiche del Green Deal europeo, lungi dall’essere utopistiche, peccano addirittura di scarsa ambizione. Vale per il settore agricolo, che versa in condizioni critiche proprio per la crisi climatica e la degradazione sempre più pronunciata degli ecosistemi; vale per quello economico, dato che i danni prodotti dalla crisi climatica stanno aumentando vertiginosamente, e i vantaggi derivanti da una transizione rapida superano di gran lunga gli svantaggi; e vale anche per quello lavorativo, se consideriamo la convergenza di analisi che mostrano come una decarbonizzazione ben pianificata potrebbe generare tre volte i posti di lavoro che renderebbe obsoleti.
Se proprio vogliamo individuare una deriva ideologica, piuttosto, dovremmo guardare a chi vaticina l’esistenza di un fronte ambientalista europeo deciso a imporre misure ingerenti senza che esista una vera ragione per farlo. La buona notizia è che gli elettori si stanno rivelando di gran lunga più eco-consapevoli rispetto alla loro classe politica. Stando a una recente ricerca Euromedia, oggi il 73% degli elettori italiani ritiene che la transizione ecologica sia “molto” o “abbastanza” importante per il futuro dell’Italia; una presa di coscienza trasversale a tutto l’arco politico: gli elettori di FDI e Lega, per dire, sono i meno eco-consapevoli, ma in entrambi casi la percentuale di favorevoli alla transizione raggiunge il 60%.
Questa discrepanza tra elettorato e rappresentati, com’è intuibile, crea un vuoto politico. E come ben sappiamo i vuoi politici tendono a non restare tali a lungo.
Un vuoto che bene o male sarà riempito
Di recente è uscito un interessante saggio, Ecofascisti (Einaudi, 2023), in cui la giornalista Francesca Santolini mostra come le tematiche ambientali vengano sempre più spesso sfruttate da movimenti e partiti dell’estrema destra per aggiornare e irrobustire la propria agenda nazionalista e xenofoba. Abbandonato il negazionismo più plateale (“il cambiamento climatico non esiste”) e quello più strumentale (“il problema esiste ma non è causato dall’essere umano”), la destra estrema si sta posizionando su una diversa forma di distorsione della realtà, che potrà funzionare anche in un mondo in cui negare la crisi climatica sarà impossibile. Il ritornello della propaganda ecofascista fa più o meno così: "Ok, il riscaldamento globale esiste; e sì, è determinato dalle attività umane; ma per arginarlo bisognerà proteggere i nostri territori dalla sovrappopolazione, dai flussi migratori e dal degrado ambientale prodotto da persone che non hanno alcun legame con questa terra". Come nel caso del negazionismo, anche qui siamo di fronte a una balla clamorosa, che oblitera consapevolmente il peso del sistema economico e produttivo occidentale, riducendo il tutto a una questione di protezione di confini ed ecosistemi. Addirittura, l’aumento dei flussi migratori viene presentata come causa di degrado ambientale e aumento delle emissioni, quando sappiamo bene che ne è una conseguenza.
L’emergere di una nuova propaganda ecofascista è preoccupante, certo, ma è anche sintomo di un vuoto politico che ancora deve essere colmato. Il fatto che per molto tempo le tematiche ecologiche siano state considerate appannaggio della sola sinistra, non significa che per contrastare la deriva ecofascista debbano essere di nuovo recintate nell’area progressista. Problematiche come il riscaldamento globale, il declino della biodiversità, il degrado degli ecosistemi, il consumo di acqua e suolo, non sono mai state questioni puramente etiche o estetiche, sono sempre state innanzitutto questioni pratiche. Semplicemente, per molto tempo abbiamo potuto permetterci di ignorare che lo fossero.
Ma oggi diventa ogni giorno più palese che la crisi climatica è un problema di tutti, e sarebbe naturale che tutto l’arco politico ci si misurasse in modo consapevole, proponendo soluzioni ispirate da valori e priorità diverse, magari, ma se non altro subordinate a una presa di coscienza della realtà. Un cambio di passo di questo tipo porterà a un ventaglio di approcci molto più ampio dell'attuale dicotomia tra un fronte conservatore difensore del capitalismo fossile e un fronte progressista promotore di green deal e decarbonizzazione.
Per dire: Zoe Daniel, uno dei nomi di punta dei teal indipendents australiani, è stata eletta rivendicando la necessità di una riduzione del 60% delle emissioni di carbonio entro il 2030 e di un blocco a tutti i sussidi fossili e i progetti estrattivi, ma allo stesso tempo si batte per il mantenimento delle agevolazioni fiscali sul negative gearing per gli investitori immobiliari, la riduzione del deficit di bilancio e la riduzione della burocrazia per le piccole imprese. Analogamente, negli Stati Uniti ci sono associazioni come il Conservative Climate Causcus e think tank come ClearPath che considerano la decarbonizzazione una priorità, e lavorano per indirizzare le politiche repubblicane verso approcci eco-consapevoli.
Intendiamoci, è assai probabile che eventuali teal indipendents italiani proporrebbero politiche problematiche, e metterebbero sviluppo economico e profitto davanti alla giustizia sociale (basta guardare a come il PPE stia lavorando per trasformare il Green Deal europeo in uno strumento di protezione dei grandi profitti), ma sarebbero comunque una novità salutare per la politica italiana.
Insomma: non li voterei mai, ma sarei contento di vederli seduti in Parlamento.
Dei conservatori climatici farebbero bene anche alla sinistra
Da che ho avuto una tessera elettorale non mi sono mai avvicinato a porre una x su un candidato di destra, tantomeno di centro, e dubito fortemente che questa cosa cambierà negli anni a venire. Ma direi il falso se rivendicassi di aver sempre votato con entusiasmo. Non è questo l’articolo in cui mi dilungherò sui problemi che ingessano il discorso politico a sinistra, mi limiterò a parlare del grave ritardo con cui la sinistra italiana (in buona parte) sta metabolizzando la questione ambientale. Perché è vero che i programmi dei partiti moderati e conservatori sono un florilegio di inesattezze e slogan strumentali, ma è altrettanto vero che anche alcuni dei programmi della parte più progressista dell’arco parlamentare non mostrano una reale presa di coscienza della realtà che stiamo vivendo.
Di fronte a una tornata elettorale che sarà decisiva per il raggiungimento di obiettivi climatici imprescindibili, anche a sinistra in alcuni programmi la questione slitta nelle ultime pagine, come fosse un obolo da pagare controvoglia, una sorta di messa ambientale a cui partecipare per poter rivendicare un posto al tavolo dei virtuosi. L’abbiamo detto poco fa: la crisi climatica dovrebbe innervare qualunque programma politico, dall’introduzione alla chiosa, eppure sono decenni che il clima e le questioni ecologiche sono relegati a un punto remoto del programma. Da un partito di sinistra non mi aspetto che si limiti ad appoggiare il Green Deal, o a riconoscere mitigazione e adattamento come priorità, mi aspetto una prospettiva a lungo termine; una visione complessiva che preveda il superamento di un sistema incardinato su consumo, crescita ed estrazione di valore; una rotta orientata verso un tipo di società profondamente diversa da quella che conosciamo (una in cui, per dirne una, il lavoro non sia più baricentro esistenziale).
Alcuni partiti della parte progressista dell’arco parlamentare oggi non si preoccupano di tracciare questa rotta per il semplice motivo che, dal punto di vista elettorale, non ce n’è mai stato bisogno: perché le tematiche ecologiche non si erano ancora imposte nel discorso politico, ma anche perché sapevano che chi aveva a cuore tali tematiche non aveva poi questa gran scelta.
L'emergere di partiti moderati e conservatori eco-consapevoli, che presentino programmi che partono da dati reali, e da una una preparazione effettiva sulle questioni ecologiche e sul vastissimo ventaglio di influenze che la crisi climatica sta avendo e avrà sui vari settori, creerebbe le condizioni per un dibattito serio riguardo al cambiamento trasversale di cui abbiamo bisogno; un dibattito che coinvolga l'intero spettro politico e che una volta tanto parta da una presa di coscienza comune.
Ma se anche i partiti più moderati continueranno a lasciarsi irretire dagli immediati benefici del populismo negazionista, il confronto politico avverrà ancora su un piano di discussione falsato, facendo perdere a tutti altro tempo. Tempo che, di fatto, abbiamo già esaurito.