Me lo ricordo bene, il 14 dicembre del 2018. Ero in auto, avevo da poco lasciato la redazione, quando arrivò la notizia: Antonio Megalizzi era morto. È passato dunque un anno da quando il giovane giornalista italiano, 29 anni, è deceduto in un letto di ospedale a Stasburgo, in Francia, dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile vagante. Tre giorni prima di quel maledetto giorno, l'11 dicembre, Antonio sta visitando i mercatini di Natale nella cittadina del Nord-Est della Francia, insieme a due amiche, quando Cherif Chekat, la stessa età di Antonio, 29 anni, originario del Nord Africa ma nato proprio a Strasburgo, spara sulla folla: un proiettile colpisce il giovane giornalista italiano, come detto, alla testa. Megalizzi viene ricoverato in ospedale: per tre giorni, arrivano notizie contrastanti; Antonio è grave, ma le sue condizioni sono stazionarie, poi si aggravano. Per tre giorni Trento, la sua città natale, e l'Italia intera sperano che possa riprendersi: poi, nel pomeriggio inoltrato di quel maledetto 14 dicembre, arriva la notizia. Antonio è morto. Sono morti i suoi 29 anni, i suoi sogni, le sue aspirazioni.
Si può trovare la morte dove si è andati a cercare di costruirsi un futuro, e quindi la vita? La storia di Antonio ci dice che sì, purtroppo si può. Il 29enne voleva fare il giornalista e stava facendo di tutto per far sì che la sua ambizione si avverasse, anche andare lontano da casa: un po' per necessità, ma ancora di più perché Antonio credeva nell'Europa, nella coesione e nel senso di comunità, tanto che aveva cominciato a lavorare per Europhonica, web radio universitaria dedicata proprio a quell'amata Europa. A Strasburgo, emblema dell'unità del Vecchio Continente, Antonio ci era andato per seguire un evento al Parlamento Europeo; un sogno, per uno come lui, che non ci ha messo nulla a trasformarsi nel peggiore degli incubi.