Sta facendo già molto discutere l'ultima lectio magistralis di Umberto Eco che avrebbe tenuto a Camogli come discorso di chiusura del Festival della Comunicazione. A causa del maltempo la lezione non ha avuto più luogo ma il contenuto è stato pubblicato oggi su Repubblica, dalla prima pagina. E' una lezione dottissima, interessante e molto chiara, sui pronomi di allocuzione reverenziali o di cortesia (Ella, Lei, Voi) come distingue la stessa grammatica italiana di Luca Serianni. Sull'uso che ne fanno popoli anglofoni e francofoni e che ne facciamo noi, e quali siano le origini. Umberto Eco esorta soprattutto i giovani a dare del lei, indicando come luogo della deboscia grammaticale i negozi (più sono periferici peggio è) e ovviamente, come non menzionarla, la tv. Inoltre, non sarebbe solo una questione di educazione.
Il problema del "Tu" generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati.
E anzi, aggiunge, nessuno si prende cura degli immigrati per insegnare loro le differenze tra il tu e il lei. Qui, però verrebbe da dire che già sarebbe molto che ci si occupasse tout court degli immigrati. Ma insomma, per lui anche gli immigrati devono esprimere un livello di educazione.
Poiché una simile lezione era stata concepita per il festival della Comunicazione, da comunicatori, ce la sentiamo di replicare due cose: la prima è che l'allocuzione, che la grammatica del Serianni, appunto, chiama “di cortesia”, non solo veicola un messaggio di prossimità che l'interlocutore che l'impone per primo si vuole arrogare sull'altro, ma anche, e sempre di più, il desiderio di manifestare un potere, fingendo un'amicizia che non c'è. Come il conduttore in tv o il politico che dicono “ gli amici che sono casa”. Quanta condiscendenza in quella falsa prossimità! Il “Tu”corrisponde anche all'odioso “ciao cara, o ciao caro” tornato in auge dagli anni '80 detto dal commesso del negozio, che imita esattamente quanto fa il capo, il padrone, o il direttore con i suoi dipendenti. Una superiorità che vorrebbe avere, ma che non ha e prova a esercitarla con chi capita in quel momento. Come l'usciere che si mette nei panni del direttore generale e si spertica per creare ostacoli al poveretto che deve entrare in un ministero. Così negli ospedali (sarebbe stato un esempio perfetto, peccato mancarlo) medici e infermieri esercitano un grado di prossimità e di confidenza col malato. E più è malato – non si capisce per quale ragione – meno è considerato degno di rispetto. Ogni forma di educazione è abolita dalla malattia, la persona diventa solo un corpo. Anche la politica del resto, non è da meno. Soprattutto, se si tratta di uomini nei confronti di colleghe. Poi ci sono i giornalisti che si rivolgono all'uomo comune, a seconda anche della professione che intuiscono e via seguitando in un gorgo di maleducazione e di piccoli esercizi di potere che i francesi hanno eliminato dando "del lei" (o Vous) fino a che il ridicolo non suggerisce il contrario, e soprattutto apponendo Monsieur e Madame a chiunque. Dal presidente della repubblica al muratore.
La seconda questione da sollevare come comunicatori però riguarda l'esercizio della comunicazione dello stesso Umberto Eco col resto del mondo. Posto che mai come in questo momento si ha bisogno di autorevoli figure di anziani, e anzi più che mai è auspicabile chiarire che la parola “rottamazione” e “rottamare” abbia a che vedere con il gattopardesco assunto “cambiare tutto perché nulla cambi”, ci chiediamo se veramente non sia il caso che lui per primo approfitti dello spazio che una testata come Repubblica gli mette a disposizione, della autorevolezza della sua voce per dire qualcosa che non ci faccia rimpiangere invece una rottamazione perpetua del trombonismo universitario.
Di recente un'altra sua esternazione che pure aveva fatto molto discutere:
"I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E' l'invasione degli imbecilli".
Posto che chiunque si confronti con il web sia come comunicatore sia come semplice fruitore ha ben chiaro questo concetto sulle legioni di imbecilli che parlano come al bar, è però sconcertante che lo dica come se nessuno avesse mai ipotizzato la questione, non ci si sia mai confrontato e effettivamente, una volta sentito il pensiero di Umberto Eco, esclami: “Perbacco, questa non l'avevo proprio pensata, o capita o vista”. Non solo. Di quella dichiarazione c'era anche un dettaglio che davvero non si poteva accettare: l'auspicio del ritorno alla carta stampata. Ignorando chi siano moltissimi dei giornalisti della carta stampa, ignorando che la rete ha minato per l'appunto le fesserie prese per oro colato nei secoli da legioni di giornalisti della carta stampata. E anche loro, illustri imbecilli, con l'aggravante di farlo per professione.
Insomma è davvero bello che il professore ci parli e abbia ancora voglia di condividere il suo sapere, ma sarebbe anche bello se oltre a dare dotte lezioni, sempre utili, tenesse conto del mondo in cui vive, in cui gli immigrati crepano di fame, in cui abbondano di nuovo i “ciao carissimo” per manifestare potere, in cui ognuno vive cercando la sopraffazione, in cui la rete è piena di imbecilli, è vero, ma tutto sommato viva la rete. E tutto questo non può non attraversare il linguaggio.