Ultrastorie

Ti racconto perché la storia di Alfredino Rampi caduto nel pozzo a Vermicino ha cambiato le nostre vite

Il primo episodio del vodcast ULTRASTORIE racconta di come Alfredino Rampi cadde in un pozzo a Vermicino e morì il 13 giugno del 1981, dopo una serie di tentativi per recuperarlo. Da quel giorno l’Italia non fu più la stessa.
A cura di Olimpia Peroni
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È pieno di gente. Una folla di persone che parla, che sta in silenzio, che ha caldo – perché è giugno, l’11 giugno del 1981. In questo periodo, di solito, i romani che non lavorano se ne vanno al mare a Ostia, a Fregene, a prendere il sole, a rinfrescarsi. Però quell’11 giugno migliaia di persone si raccolgono nelle campagne vicino Frascati. Parlano, si coprono gli occhi dal sole, alcuni prendono da mangiare e da bere dai venditori ambulanti. Da fuori sembra una sagra. Però manca qualcosa: l’allegria. E, anzi, guardando meglio: tutti sono rivolti preoccupati verso un unico punto. Un pozzo. E c’è un uomo chino sull’entrata. Dice “So che sei stanco, ma stiamo lavorando tutti per te, non urlare”.

Quell’uomo è Nando Broglio, un vigile del fuoco. Sta parlando ad un bambino di 6 anni che la sera prima è caduto in un pozzo, bloccandosi a 30 m di profondità. Alcuni quotidiani del tempo definiscono quel bambino “il figlio di tutti” – e, come vedremo insieme, non esagerano.

Durante i tentativi di soccorso viene trasmessa una diretta ininterrotta che dura 18 ore e viene vista da 21 milioni di persone. 21 milioni di persone per cui quel bambino di 6 anni diventa un figlio, un fratello o un nipote.

Questa è una storia che ha scosso e sconvolto il nostro Paese al punto da cambiarlo sotto più punti di vista: primo tra tutti, il modo in cui reagisce alle emergenze locali e nazionali.

La scomparsa e l'incidente di Vermicino

La famiglia Rampi si trasferisce per l’estate nella seconda casa, quella delle vacanze, tra Vermicino e Selvotta. Sono papà Ferdinando, mamma Franca, i due figli Alfredo e Riccardo, di 6 anni e 2 anni, e nonna Veja. Trascorrono le giornate giocando all’aperto, mangiando ghiaccioli, passeggiando. Proprio nel tardo pomeriggio del 10 giugno papà Ferdinando, due suoi amici e il figlio Alfredo tornano a casa passeggiando per le campagne. A quell’ora è un poco più fresco, si alza il venticello, le cicale cantano forte, non ci sono molti altri rumori in giro. Verso le 19.20 il bambino fa al padre “posso tornare passando per i campi?”, giusto per fare prima, lui dice sì e si separano.

Ma quando papà Ferdinando arriva a casa alle 20, non trova il figlio. Lo cercano per più di mezz’ora, poi chiamano aiuto. Tra le 21.30 e le 22 arrivano polizia, vigili urbani, vigili del fuoco – e anche dei vicini incuriositi da quel caos di auto e persone. Si uniscono tutti alle ricerche. Ormai la luce è quasi completamente andata, il buio impedisce di guardarsi per bene intorno – e le torce sono poche, quasi zero. E quindi lo chiamano, si mettono tutti a urlare il nome di Alfredo ma non ricevono nessuna risposta. I genitori sono disperati. E se se l’è preso qualcuno? Se gli hanno fatto del male? Se ha sbattuto la testa e ha perso i sensi?

Poi nonna Veja chiede: “E se è caduto nel pozzo?”.

Vicino casa Rampi, nel terreno accanto, si sta costruendo una nuova casa. In quel fazzoletto di terra c’è un pozzo artesiano. Premessa: esistono due tipi di pozzo, quello artesiano e quello freatico. Quello freatico è il più comune, ha un diametro abbastanza largo ma è molto superficiale, quindi l’acqua che raccoglie non è molto pura. Poi c’è il pozzo artesiano. È strettissimo, ha un diametro di circa 15-30 cm – per capirci, una forchetta da tavola è lunga circa 20 cm. Ma è un pozzo che arriva a una profondità di anche 100 metri, dove l’acqua è più potabile. Il pozzo vicino casa Rampi è artesiano, stretto e profondo. Ma soprattutto: è abusivo e quindi non è segnalato da nessun cartello. Semplicemente, chi vive là vicino, sa che è lì. Ma a un bambino che torna a casa da solo, mentre sta facendo buio, può sfuggire.

Il brigadiere Giorgio Serranti va a controllare, ma l’apertura del pozzo è coperta da una lamiera tenuta ferma da dei sassi. Quindi è strano che sia caduto lì. Serranti ci prova comunque: alza la lamiera, infila la testa dentro e dalle profondità di quel budello sente i lamenti di un bambino. Tutti quelli che stanno partecipando alle ricerche si raccolgono intorno all’apertura del pozzo. Non è facile comunicare direttamente con Alfredo, ma perlomeno si sa che è vivo. Intrappolato, ma vivo. Ora però, come prima cosa, va capito a che profondità si trovi di preciso.

Calando una lampada stimano che sia bloccato a 36 metri, ma non perché il pozzo finisca in quel punto, ma perché la sua caduta è stata arrestata da una curva o da una rientranza. Infatti, quel pozzo artesiano arriva a 80 m di profondità ed è stretto 28 cm. Le pareti del pozzo sono frastagliate, piene di rientranze, irregolarità – cosa positiva, dal momento che proprio queste rientranze hanno impedito al bambino di scivolare più in basso. Cosa però negativa per i soccorsi – e capirete presto perché.

Il primo tentativo di salvare Alfredo, il primo errore

La prima soluzione che i soccorritori provano ad attuare si rivela il primo grande errore in tutta questa vicenda. “Il primo errore” perché ne vengono commessi molti altri, non tanto dovuti a singoli individui, ma a una disorganizzazione generale. Nessuno è preparato a gestire un’emergenza simile e appare evidente fin da subito.

La prima soluzione che si prova, quindi, è di provare a issarlo su.

I soccorritori calano una tavoletta legata a delle corde, un po’ come un’altalena, a cui il bambino si deve aggrappare per essere tirato su. Vi ho detto che le pareti del pozzo sono molto irregolari, no? Ecco, la tavoletta si incastra a 24 metri e nessuno riesce più a rimuoverla. Ci provano, ma la corda si spezza. Ora tra i soccorritori e il bambino c’è questo nuovo ostacolo e il tunnel è quasi completamente ostruito. Intanto si fa l’una di notte, è l’11 giugno. L’esigenza è parlare con Alfredo, perlomeno sapere come sta, tranquillizzarlo, farlo parlare con mamma Franca, così dei tecnici Rai calano un filo con un’elettrosonda e riescono finalmente a sentirlo. Alfredo è incredibilmente lucido, parla, risponde, ha molta paura ma fin da subito sorprende tutti dimostrando coraggio e gran resistenza. E ha solo 6 anni.

Il tunnel parallelo e il pozzo artesiano

Si arriva alla seconda soluzione:  scavare un tunnel parallelo al pozzo, a un paio di metri di distanza, che arrivi più o meno a dove si trova il bambino. E a quel punto scavare un raccordo orizzontale che colleghi il pozzo al tunnel. Poi farci entrare qualcuno che recuperi Alfredo.

Però, per scavare, serve la trivella. Qui entra in scena uno dei protagonisti assoluti di questa storia. Elveno Pastorelli, comandante dei Vigili del fuoco di Roma. Pastorelli ha alle spalle un’esperienza lunghissima, ha partecipato alle operazioni di soccorso del Vajont e dell’alluvione di Firenze. Insomma, è un pezzo grosso del settore. È lui che alle due di notte fa un appello pubblico che viene trasmesso in tv su dei canali privati del Lazio. È un appello generico: si dice che c’è bisogno di una trivella per un bambino caduto in un pozzo, fine. Una ditta contatta Pastorelli e si rende disponibile per le 6-7 del mattino.

Ma non finisce qui. Un insieme di circostanze e coincidenze fa sì che l’annuncio sia visto da un telespettatore che in tutta questa storia finisce per ricoprire un ruolo fondamentale. Si tratta di Pierluigi Pini. Quella notte sta facendo zapping in tv. E’ stanco, ha appena finito l’ultima edizione del telegiornale ed è tornato a casa dopo mezzanotte. Ma fa troppo caldo per dormire, quindi cambia canale dopo canale. E si imbatte nell’annuncio del comandante Pastorelli. Prima di entrare alla Rai, Pini ha lavorato per vent’anni per un quotidiano. Insomma, è un giornalista professionista. E ha fiuto per le notizie. Quindi chiama il numero dell’annuncio e finge di avere una trivella per sapere il luogo dell’incidente. Prende l’auto e parte come inviato del tg2.

Gli speleologi: i primi volontari

Verso le 4 arriva qualcun altro a Vermicino. È un gruppo di giovanissimi speleologi, sono tutti ventenni e si offrono volontari per calarsi nel pozzo. Ci provano in tre, ma nessuno riesce, soprattutto a causa delle pareti frastagliate del pozzo che li feriscono e impediscono loro di continuare. Si fa mattina e Pastorelli ordina di sospendere i tentativi degli speleologi perché intanto la trivella è arrivata e ora bisogna concentrare tutta l’attenzione sugli scavi del tunnel parallelo. Una geologa del gruppo, Laura Bortolani, lo sconsiglia. Questo suolo ha degli strati sotterranei troppo duri, dice. Ci vuole tanto tempo, troppo tempo per scavare. Va bene azionare la trivella, ma intanto continuiamo con i tentativi dei volontari che vogliono scendere.

No, Pastorelli non vuole, ordina agli speleologi di sgomberare e alle 8.30 si inizia a scavare.

Da qui in poi, è un susseguirsi di fallimenti, perché Bortolani aveva ragione: per i primi due metri il terreno è friabile, poi però la trivella incontra uno strato di roccia difficile anche solo da scalfire. Quindi viene richiesta un’altra trivella più grande e poi un’altra ancora più grande. Parliamo di bestioni di metallo dalle proporzioni giganti che vengono portati a Vermicino facendo anche più di 50 km di strada in tempi record. Massimo Gamba, nel suo libro “Alfredino. L’Italia nel pozzo” ricorda come è stato addirittura bloccato il traffico del Grande Raccordo Anulare per agevolare il passaggio della trivella. Tra l’altro, scortata dalla polizia stradale.

Le trivelle, però, alternano ore di scavi in cui, effettivamente, si riesce ad andare in profondità, a ore in cui sono bloccate da durissimi strati di terra.

Ora immaginiamoci Alfredo. I soccorritori, con una sonda, gli passano ossigeno, acqua e zucchero, sì, che può essere un sollievo. Ma in tutte queste ore di scavi, lui sta vivendo un incubo che coinvolge tutti i sensi. Non vede nulla, è immerso nel buio. E’ incastrato, non riesce a muoversi. E’ ricoperto di terra e fango dalla testa ai piedi. L’odore che sente è quello della terra, probabilmente anche il sapore che ha in bocca è quello della terra. E il rumore. Ore e ore e ore del rumore assordante e martellante delle trivelle, oltre il fatto che tutto, intorno a lui, trema, come in un sisma che non finisce mai. Per confortarlo i soccorritori gli dicono, attraverso il microfono, che tutto quel fracasso è perché sta per arrivare Jeeg Robot d’Acciaio a salvarlo. Però ci sono dei momenti in cui Alfredo proprio non riesce più e urla, urla forte alla mamma di tirarlo fuori di lì.

Quelle urla le sente tutta Italia.

L’inizio della diretta televisiva di 18 ore

Appena Pierluigi Pini arriva a Vermicino, in tarda notte, comincia a riprendere quello che vede. Poi manda il girato alla Rai – il suo servizio va in onda sia al TG1 che al TG2 nell’edizione delle 13. In quel momento gli italiani, probabilmente mentre stanno pranzando, sentono le urla disperate di un bambino di 6 anni. Esplode subito un fortissimo interesse da parte di tutti.

Intanto, Pastorelli, non solo lui, è ottimista. Dichiara che da lì a pochissimo il bambino verrà tirato fuori. E i tg ne approfittano: il servizio delle 13 si trasforma in una diretta. Cosa c’è di meglio, in un momento così teso e tragico, di far vedere a tutta Italia, in tempo reale, il salvataggio in diretta del bambino? Così i servizi sulla vicenda si trasformano in una diretta a flusso continuo e a reti unificate – quindi: i tre canali della Rai, tutti insieme, mostrano la stessa diretta.

Ma perché guardare in tv qualcosa quando si può andare direttamente sul posto? E così quell’11 giugno migliaia, migliaia di persone vanno a Vermicino. Attorno al pozzo, in quel fazzoletto di terra, si raccolgono circa 10mila persone con tanto di venditori ambulanti di cibo e bevande. Tutti vogliono vedere i soccorsi, tutti vogliono partecipare in qualche modo, assistere al momento del salvataggio. Come dice Pastorelli, come dicono gli altri, no?

Con il passare delle ore l’ottimismo cala.

Mattino del 12 giugno. La trivella è andata avanti per tutta la notte. La diretta a reti unificate continua. Quella notte moltissimi italiani non hanno chiuso occhio o si sono addormentati sul letto, con la tv accesa sul tg. Alle 11 il tunnel parallelo arriva a 32,5 m. Si decide di accelerare i lavori e di cominciare subito a scavare il raccordo orizzontale tra il pozzo e il tunnel. La scavatrice che deve scavare questo raccordo, però, si blocca. Allora tre vigili del fuoco si calano per scavare a mano. Pastorelli è sempre sul posto, non ha mai lasciato il pozzo. Comunica con i tre vigili con uno walkie talkie. Come riporta Massimo Gamba, il comandante non fa che incitare i suoi uomini, che scavano a mano sfiniti dalla fatica, dicendo: “Scavate come il carcerato che vuole evadere”.

L’arrivo di Sandro Pertini: tra polemiche e buone intenzioni

Mentre gli uomini scavano, in quel fazzoletto di terra circondato da migliaia di persone, arriva il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Questo suo gesto è parecchio polarizzante. Da un lato è un modo per partecipare al dolore della famiglia e, in generale, di tutta Italia – dato che a guardare la diretta sono 21 milioni di italiani – e in quell’anno la popolazione arriva a 56 milioni e mezzo di abitanti. Dall’altro, la sua presenza alimenta l’ossessione di tutti verso questa tragedia. Avere lì il presidente spinge i tg a non interrompere la diretta, richiama ancora più curiosi. Non è la prima volta che Pertini fa una cosa del genere. Otto mesi prima c’è stato il terremoto in Irpinia che è un, diciamo, doppio disastro. Il primo è il terremoto, il secondo la mancanza di soccorsi immediati. Migliaia di persone sono rimaste sotto le macerie per giorni, a gridare aiuto. Così Pertini è andato sul posto e ha fatto un annuncio per richiamare volontari da tutta Italia – mossa che funzionò.

Ma a Vermicino il discorso è diverso. Se in Irpinia serviva avere più persone possibili per dare una mano, a Vermicino serve, più che altro, sgomberare quelle già presenti che non possono aiutare in nessun modo a recuperare il bambino. Pertini, comunque, ha più di 80 anni – ma resta lì per 15 ore ad assistere, a parlare con Alfredo, sotto il sole estivo, in mezzo a migliaia di persone.

Il tunnel parallelo: Alfredo non c'è

Alle 19.00 a 34 metri di profondità viene completato il raccordo orizzontale. Ma Alfredo non c’è. È scivolato ancora più giù, probabilmente a causa delle costanti vibrazioni della trivella. Sì, ma quanto in basso? Si cala una torcia. Il bambino è a 60 m di profondità. Allora, per arrivare a poco più di 30 m le trivelle ci hanno messo una smisurata quantità di ore. Rischiarne altrettante per altri 30 m è impensabile. Ne va della vita del bambino, che sta sempre più esaurendo tutte le sue energie. E che, anzi, per l’età è incredibile che abbia resistito così a lungo.

Manca l’ultima possibilità: far calare i volontari. Come il sardo Angelo Licheri. Licheri si cala a testa in giù per 45 minuti – contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza se si sta a testa in giù. Arriva ad Alfredo e prova più volte a imbracarlo ma il bambino gli continua a scivolare a causa di tutto il fango che lo ricopre. Anzi, involontariamente, provando più volte a prenderlo di forza gli spezza il polso sinistro. Uscito dal pozzo, Licheri è sanguinante e stremato. Si riprende solo diverse settimane dopo. Le pareti strette e frastagliate del pozzo gli causano delle ferite le cui cicatrici gli restano a vita.

Alle 9 del mattino del 13 giugno, dopo una notte di tentativi, viene calato uno stetoscopio per percepire il battito cardiaco del bambino. Ma non viene rilevato nulla e così viene dichiarata la morte presunta.

Tre squadre di minatori recuperano il corpo di Alfredo Rampi 28 giorni dopo. Durante i funerali del 15 luglio a trasportare la bara sono gli stessi volontari che hanno tentato di salvare il bambino, tra cui Angelo Licheri.

La nascita della “tv del dolore”

Quella che era iniziata come una diretta che voleva mostrare agli italiani un bel momento di salvataggio, si interrompe dopo aver mostrato la morte di un bambino avvenuta in tempo reale, per 18 ore. Per questo si considera la tragedia di Vermicino l’evento con cui è nata la “tv del dolore”, una tv che esaspera un dramma, una tragedia, una vicenda, che spettacolarizza il dolore delle persone coinvolte.

La “tv del dolore” è sempre stata molto criticata. Attira gli spettatori prendendoli dalla pancia, dalla loro emotività, tocca le loro corde più intime: il dolore e la paura. Tutto quello che in quei giorni accadde in Italia, per chi guarda la diretta, non ha più importanza. E ne succedono di cose in Italia, in quei giorni, eh. E’ il periodo dello scandalo della P2, del primo capo del governo non democristiano che deve formare il governo, delle Brigate Rosse che rapiscono Roberti Peci. Tutte cose che però, se Alfredo è nel pozzo, perdono di importanza.

Massimo Gamba scrive che i giorni dopo che la diretta viene interrotta, i farmacisti registrano “una considerevole crescita nelle vendite di tranquillanti, ansiolitici e cardiotonici”. Questa tragedia vissuta da tutti dall’inizio alla fine in modo diretto, senza filtri né intermediari che avrebbero potuto veicolarla, comprenderla, diciamo, in tutta la sua complessità, ha portato a una cosa: una caccia alle streghe, un bisogno di doverla risolvere almeno trovando un colpevole, qualche singolo contro cui puntare il dito.

L’impegno della mamma Franca Rampi

Una delle vittime di questa ondata di frustrazione è stata proprio Franca, la madre di Alfredo. Dei giornali e molte persone le recriminano un atteggiamento lucido, di essersi assentata per qualche ora per riposare, di aver, pensate, mangiato un ghiacciolo. Alcuni, come dichiara lei stessa in un'intervista, la chiamano “madre snaturata”.

La donna, però, sembra sapere molto bene che puntare il dito sul singolo individuo è più una risposta istintiva che una risoluzione logica. C’è ben altro a cui pensare. C’è da ripensare l’intero sistema con cui si reagisce alle emergenze. In quella stessa intervista dice che il fatto che Alfredo sia morto “fa rendere conto a tutta l’opinione pubblica che non dobbiamo più, più, più sbagliare (…). Se si crea in Italia questo centro operativo di cui si è vista la carenza e la disorganizzazione, noi avremo fatto un passo enorme e il mio bambino sarà felice”.

Nasce la Protezione Civile

La tragedia di Vermicino ha messo in luce la disorganizzazione strutturale che il nostro Paese aveva di fronte alle emergenze e agli incidenti su piccola o larga scala, evidenziando problemi che erano già apparsi evidenti durante il terremoto in Irpinia, accaduto meno di un anno prima. Franca Rampi, che in prima persona ha subito le conseguenze di tutto questo, si è battuta fin da subito dopo la tragedia per la creazione della Protezione civile – che fino a quel momento esisteva solo sulla carta. Ed è anche grazie al suo impegno che, oggi, l’Italia ha un insieme di corpi organizzati che mette in campo, prima, durante o dopo le emergenze. La Protezione civile, oggi, ha proprio questo obiettivo: tutelare la vita di persone e animali ma anche l’ambiente, i beni e gli insediamenti in caso di danni o di pericolo di danni derivanti da calamità e emergenze.

L’incidente di Vermicino ci fa capire quanto l’assenza di un dipartimento specializzato e organizzato possa fare la differenza, durante le emergenze, tra un lieto fine o una tragedia.

Puoi trovare questa puntata del vodcast “ULTRASTORIE” sulle principali piattaforme di streaming.

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