Chi si trovasse a sorvolare la provincia di Iquique, nella porzione più settentrionale del Cile, si accorgerà che in alcuni punti il paesaggio marziano del deserto di Atacama viene interrotto da ampie zone multicolore. Quelli che a uno sguardo lontano possono sembrare dei caleidoscopici giochi di luce creati dal caldo, avvicinandosi si rivelano qualcosa di molto più prosaico: si tratta di vestiti usati. Tonnellate su tonnellate di vestiti usati e cestinati nel giro di pochi mesi da consumatori statunitensi ed europei.
Il Cile oggi è uno dei più grandi importatori di vestiti usati: nella regione di Iquique ne arrivano ogni anno 60.000 tonnellate; di questi, meno della metà vengono effettivamente rivenduti, il grosso finisce in discariche abusive nel deserto, creando problemi giganteschi alla cittadinanza e agli ecosistemi locali.
È uno dei rovesci più prevedibili della fast fashion, un modello di business che si è diffuso e imposto a partire dalla fine degli anni ‘90 e che punta a massimizzare il numero di capi venduti puntando su prezzi molto bassi e un rapidissimo ricambio di guardaroba. Oggi, la fast fashion è una delle tendenze commerciali più dannose in assoluto per il pianeta, e non soltanto per via dell’impressionante quantità di vestiti che ogni anno viene riversata nelle discariche di mezzo mondo, ma anche e soprattutto per via del costo in termini di emissioni e consumo d’acqua che questo trend impone.
Dalla moda veloce a quella ultra-veloce
Le radici della fast fashion risalgono agli anni ‘80, quando negli Stati Uniti si rese necessario sviluppare un approccio manifatturiero che consentisse di ottimizzare i tempi di realizzazione di un capo d’abbigliamento per poter competere con la crescita dei prodotti a basso costo prodotti all’estero. Questo approccio, chiamato Quick Response Method (in italiano: Metodo di risposta rapida), ha consentito ad alcuni marchi di arrivare a produrre migliaia di nuovi capi ogni anno, velocizzando a tal punto il ricambio da poter mandare nei negozi infornate di capi nuovi e diversi più volte alla settimana.
Solo lo scorso anno H&M e Zara hanno immesso sul mercato complessivamente oltre 10.000 nuovi capi. Una cifra impressionante, certo, ma nulla in confronto alla startup cinese Shein, che in soli dodici mesi ha aggiunto sul proprio sito ben 315.000 nuovi indumenti, praticamente 1000 al giorno. La crescita di Shein è stata così rapida e ingente che il suo modello di business si è guadagnato l’etichetta di “ultra-fast fashion”.
Questo termine potrebbe far pensare che questo nuovo trend altro non sia che un’estremizzazione di quello esistente. Ma non è proprio così: Shein, di fatto, ha creato qualcosa di diverso. “Il modello normale [della fast fashion, N.d.R.] con cui tutti credo abbiamo familiarità consiste in un brand, ad esempio Zara, che va alla fashion week di Milano o di New York, controlla quali siano i trend, dopodiché presenta una nuova linea basata su quei trend” ha dichiarato in un’intervista a Slate Louise Matsakis, tech reporter che ha analizzato a fondo il modello di Shein: “Shein utilizza un approccio diverso. Piuttosto, controllano quello che la gente guarda sui social media, si basa tutto sui dati".
Il modello di business di Shein funziona sostanzialmente così: gli utenti hanno a disposizione una piattaforma studiata per garantire un’interazione fluida, con un’interfaccia a scorrimento non troppo diversa da quella di Instagram e di altri social. Ogni giorno Shein aggiunge centinaia di nuovi capi sulla piattaforma e aspetta di vedere che reazioni suscitano. E qui abbiamo il primo elemento di vantaggio rispetto alla fast fashion tradizionale: se un marchio tendenzialmente deve produrre un’intera linea di novità da distribuire ai vari negozi sparsi per il globo, Shein, appoggiandosi a un’amplissima rete di piccoli produttori in Cina, può permettersi di produrre piccole quantità di capi per ogni tipologia di indumento, per poi aumentarne la produzione nel caso quel particolare articolo cominci a vendere bene.
L’intero processo è talmente rapido, e i suoi costi talmente bassi (pare anche grazie allo sfruttamento di manodopera a bassissimo prezzo), che Shein è in grado di riprodurre una tipologia di capo che i suoi algoritmi hanno intercettato in rete in meno di dieci giorni. Grazie a questo approccio, nel giro di quattro anni la startup cinese è passata da una valutazione di 5 miliardi di dollari a una di 100 (più di Zara e H&M messe assieme), superando Amazon come app più scaricata negli USA e rastrellando più di 43 milioni di acquirenti in tutto il mondo.
Il dato interessante è che il cliente tipo di una piattaforma come Shein non è necessariamente una persona con scarse disponibilità economiche, spesso e volentieri ad acquistare vagonate di indumenti ogni settimana sono persone di reddito medio che potrebbero permettersi di comprare capi durevoli, ma che optano per un ricambio costante del proprio guardaroba. Questo ricambio è talmente veloce che, sebbene molti di questi capi siano programmati per durare un anno o poco più, spesso vengono cestinati ben prima della loro obsolescenza programmata, a volte dopo un solo utilizzo.
E allora diventa chiaro come ormai il problema della ultra-fast fashion non sia solo di natura economica: è innanzitutto culturale.
La dipendenza perfetta per un mondo post-pandemico
Non è così difficile capire perché l’ultra-fast fashion funzioni: i capi hanno prezzi incredibilmente bassi (nel momento in cui sto scrivendo questo pezzo sul sito ci sono 7500 articoli diversi sotto i 5 euro), così bassi che una persona può permettersi di ordinarne in blocco senza preoccuparsi troppo del fatto che possano non vestire bene. L’obiettivo spesso non è trovare un indumento da aggiungere stabilmente al proprio guardaroba, quanto avere la possibilità di sfoggiare un outfit diverso ogni giorno, senza la fatica di recarsi in un negozio e provarne diversi.
Ma come dicevamo, non si tratta solo di convenienza: i brand che puntano sulla ultra-fast fashion si appoggiano strumentalmente ai social media per alimentare questa tendenza al ricambio costante di guardaroba. Instagram, Tik Tok e YouTube sono pieni di “haul video” in cui degli influencer svuotano pacchi pieni di indumenti, normalizzando l’acquisto di nuovi vestiti ogni settimana. Non è un caso che piattaforme come Boohoo, Pretty Little Things e Shein siano cresciute tanto durante la pandemia: la possibilità di ricevere a casa talmente tanti nuovi indumenti da poter riempire i propri profili social con nuovi outfit ogni settimana, in un periodo in cui molti aspetti della vita quotidiana si erano trasferiti online, ha spinto molte persone a sviluppare una sorta di dipendenza.
E non sto utilizzando il termine “dipendenza” alla leggera: diversi studi hanno dimostrato che di fronte alla possibilità di comprare cose nuove (e di farlo nella convinzione di stare risparmiando denaro) nel nostro cervello si attiva lo stesso circuito di gratificazione associato alle sostanze psicotrope e al gioco d’azzardo. Ogni volta che compriamo un capo d’abbigliamento nuovo online, a un prezzo ridotto rispetto alle attese, il nostro cervello produce dopamina in misura maggiore rispetto a quando compriamo indumenti in saldo in negozio, e questo perché si crea un elemento di anticipazione, legato a un desiderio che abbiamo espresso (ordinando il prodotto) ma che ancora deve essere esaudito (con l’arrivo della merce). Questa dinamica in alcuni casi finisce per creare un loop di dipendenza difficile da arrestare.
Il risultato è che sempre più persone tendono a comprare nuovi indumenti che poi nemmeno utilizzano, e che in molti casi finiscono in discariche come quella di Iquique. Ma c’è anche un altro problema, che ha più a che vedere con il nuovo rapporto che stiamo instaurando con il nostro guardaroba: il prezzo di un indumento di ultra-fast fashion infatti è talmente basso che in molti casi risulta meno dispendioso, in termini di tempo e denaro, comprarne uno nuovo piuttosto che prendersene cura. Questa nuova tendenza usa-e-getta ha un impatto devastante a livello ambientale, ed è una delle ragioni per cui spesso la fast fashion è indicata come una delle peggiori minacce per il nostro ecosistema.
La moda più tossica di sempre
L’industria dell’abbigliamento oggi rappresenta il terzo settore più inquinante in assoluto, dopo quello alimentare e quello edile, ed è responsabile del 10% dei gas serra prodotti ogni anno. Per intenderci, produce più emissioni l’industria della moda che tutti i voli internazionali e le navi commerciali messi insieme. E se il trend della fast fashion continua a questo ritmo, di qui al 2030 le emissioni legate al settore aumenteranno del 50%.
Non è finita: produrre vestiti, come abbiamo già visto, comporta innanzitutto un enorme dispendio idrico. Basti pensare che l’industria tessile, tra coltivazione, produzione e trasporto, ogni anno consuma 93 miliardi di metri cubi di acqua, una quantità sufficiente a soddisfare in media le esigenze idriche di 5 milioni di persone. A questo si aggiunge il fatto che il 20% di tutte le acque di scarico prodotte nel mondo sono dovute al trattamento e alla tintura di fibre tessili, e che ben l’87% delle fibre prodotte finisce in una discarica o in un inceneritore.
Negli ultimi 20 anni, il trend della fast fashion ha portato a raddoppiare la quantità di indumenti prodotti ogni anno. Contestualmente, la necessità di produrre più rapidamente e a minor prezzo ha incrementato la percentuale di fibre sintetiche utilizzate (in gran parte poliestere), il che si traduce in una quantità sempre maggiore di micropolastiche e nanoplastiche riversate negli oceani.
Se oggi vengono prodotte annualmente 67 milioni di tonnellate di nuovi vestiti, nel giro di otto anni si prevede di superare i 100 milioni di tonnellate. Per scongiurare uno scenario del genere, a fine marzo la Commissione Europea ha annunciato un piano che dovrebbe imporre nuovi standard produttivi che garantiscano una maggiore durabilità dei capi e incentivi per aumentare la quota di fibre riciclate (oggi solo l’1% delle fibre tessili prodotte).
Misure di questo tipo renderanno più difficile a piattaforme come Shein proporre articoli in offerta a prezzi così ridotti, e sicuramente aiuteranno a incentivare il riciclo e l’acquisto di capi di seconda mano. Ma di fronte a quello che sembra sempre di più un cambio di paradigma nel modo in cui gestiamo il nostro guardaroba, e a piattaforme che hanno perfezionato sistemi che fanno leva sulla dipendenza da shopping, difficilmente queste misure saranno sufficienti.