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Uccisi dalle forze dell’ordine: il numero identificativo sulle divise è fermo da un anno

Stefano Cucchi, Davide Bifolco, Federico Aldrovandi: sono le giovanissime vite interrotte dalle forze dell’ordine. Ma ancora manca in Italia il numero identificativo sulle divise. E il reato di tortura.
A cura di Michele Azzu
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Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma, una settimana dopo essere stato arrestato dai carabinieri. Ora, la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente tre agenti della polizia penitenziaria – più un medico e tre infermieri – ma ha annullato l’assoluzione per cinque medici che andranno a un giudizio d’appello “bis” per omicidio colposo.

L’accusa è quella di non aver rilevato le importanti lesioni fisiche che aveva Cucchi. Ma è in corso anche una seconda inchiesta, quella sui cinque carabinieri della stazione Roma Appia che arrestarono Stefano. La Corte d’Assise, pochi mesi fa, aveva accertato che: “Le lesioni subite da Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e comunque da un’azione volontaria”.

Non c’è “solo” Stefano a morire in questo modo. Ci sono Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Davide Bifolco e tantissimi altri. E sono spesso giovanissimi, i morti ammazzati dalle forze dell’ordine. Chi con un colpo di pistola, chi con torture durate ore. C’è chi, come Cucchi, viene arrestato in possesso di un piccolo quantitativo di hashish e cocaina. Chi, come Bifolco, non si ferma col motorino a un ‘alt’ della volante, e chi come Aldrovandi torna a casa dalla discoteca.

Può accadere ad ognuno di noi. In città diverse, in situazioni diverse, persone fra loro molto diverse: le storie sono tutte riportate sul sito dell’ACAD, l’associazione contro gli “abusi in divisa” che monitora queste vicende. E assiste legalmente i familiari delle vittime, porta avanti campagne, fa informazione. “Abbiamo un numero verde”, dice a Fanpage.it Luca Blasi di ACAD, “Che squilla tutto il giorno. Il fenomeno in Italia esiste ed è importante”.

La mente torna a quanto successo negli ultimi mesi negli Stati Uniti. A quell’escalation di violenze da parte delle forze dell’ordine, culminate nell’omicidio del giovane Freddie Gray a Baltimora – e prima ancora del giovane Michael Brown a Ferguson – che avevano portato alle sommosse della popolazione nelle due città. E a movimenti di protesta al grido di “Black Lives Matters”, ovvero: le vite dei neri contano. Tutto questo ha avuto una conseguenza.

Lo scorso 9 dicembre, l’FBI americano, cioè la polizia federale, ha dato un annuncio storico: adotterà un nuovo sistema di database sulle uccisioni da parte delle forze dell’ordine, con dati anagrafici e modalità dei decessi. Nei mesi scorsi, il giornale The Guardian aveva creato il progetto “The Counted” – Il conteggio – in cui aveva verificato 1.058 uccisi dalle forze dell’ordine negli ultimi sei mesi. Dati molto discordanti dall’FBI, che ne contava solo 461 dal 2009 ad oggi (gli ultimi sei anni).

Per il direttore dell’FBI James Comey è stato “ridicolo ed imbarazzante” che i media avessero dati più completi del bureau stesso. “Non è buono per nessuno”, ha concluso Comey. Viene difficile immaginare una reazione simile, e tantomeno una riforma in questo senso delle forze dell’ordine, nel nostro paese. Perché ad ogni richiesta di monitoraggio su abusi, violenze ed omicidi, i sindacati delle forze dell’ordine hanno sempre risposto con un muro.

È vero, non siamo in America. I numeri sono di certo inferiori, e la questione razziale non c’entra. Ma questa realtà esiste. E raramente si riesce ad individuare i colpevoli. Anche perché il reato di tortura, che non ha prescrizione, in Italia non esiste. “A 13 anni dal G8 di Genova”, scrive Amnesty International, “molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia e in Italia mancano strumenti idonei per prevenire e punire efficacemente le violazioni”.

Proprio a seguito dei fatti di “macelleria messicana” accaduti alla Caserma Bolzaneto e alla scuola Diaz durante il G8 di Genova, il Consiglio d’Europa nel settembre 2001 adottò il primo “Codice di etica della polizia”, che riportava l’adozione di strumenti identificativi per gli agenti delle forze dell’ordine. Da allora, quasi tutti i paesi europei hanno adottato i numeri identificativi sulle divise degli agenti. Tutti, meno che l’Italia.

Nel 2013 la petizione online di Paolo Scaroni – diventato invalido dopo le manganellate della polizia – aveva raccolto oltre 100mila firme. Come fanno da anni le associazioni e i familiari delle vittime, la petizione chiedeva il numero identificativo su caschi e divise d’ordinanza. Lo scorso marzo, sono arrivati in senato tre diversi disegni di legge – l’803, il 1307 e 1412 scritti da membri di M5S, Sel e Pd – per l’adozione dei numeri identificativi.

L’ultima lettura risale allo scorso 14 ottobre: in quell’occasione il sindacato di polizia Supu definì una “idiozia” il fatto che il testo in esame indicasse i numeri identificativi anche sulle scarpe dei pubblici ufficiali. Il 21 ottobre, un successivo esame dei ddl viene cancellato dal senatore Gasparri: “Ha comunicato di non poter partecipare ai lavori della Commissione programmati per la settimana corrente, a causa del concomitante congresso del Partito Popolare Europeo a Madrid”.

Da allora è tutto fermo, e lo sarà ancora a lungo. Perché dopo l’esame iniziale dei ddl il ministro Alfano aveva annunciato un disegno del governo, e bisognerà aspettare quello – quando non si sa. Ma il numero identificativo serve ora: “Permetterebbe di individuare i responsabili di un fatto, anziché incolpare tutte le forze dell’ordine quando i responsabili non si trovano”, spiega Luca Blasi di ACAD. “Nel caso del pestaggio di Stefano Gugliotta”, racconta Blasi, “È stata possibile l’identificazione dei responsabili grazie ai video sui cellulari, ma ci sono voluti anni”.

Lo scorso aprile la band folk romana “Il Muro Del Canto” aveva realizzato assieme all’associazione ACAD il video della canzone “Figli come noi”, in cui erano presenti tanti familiari delle vittime delle forze dell’ordine, tra cui la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e diverse celebrità a supporto della causa: il cuoco Chef Rubio, il fumettista Zerocalcare. “Chi è al centro di questa problematica? Le famiglie delle vittime”, avevano detto a Fanpage.it i membri della band. “Chi incrocia i loro sguardi non può dimenticare queste storie, che possono accadere a ognuno di noi, indiscriminatamente”.

Per Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e tutti gli altri, sarebbe degno si procedesse ad introdurre anche in Italia il numero identificativo sulle divise. È una questione di civiltà. Che servirebbe alle forze dell’ordine stesse. Perché è ridicolo e imbarazzante, come ha detto il direttore dell’FBI James Comey, quando la polizia non tiene conto delle proprie violenze e costringe la società civile a farlo per ottenere giustizia.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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