Sono 11.41 del mattino, Marta Russo, 22 anni, studentessa, si accascia mentre sta passeggiando con l'amica Jolanda Ricci, in uno dei vialetti interni della cittadella universitaria de La Sapienza di Roma. Andrea Ditta, uno studente, chiama dal suo cellulare il 113. Sono le 11 e 42. Marta ha un piccolo forellino dietro la nuca dal quale fuoriesce pochissimo sangue.
La corsa in ospedale
Trasportata al Policlinico, i medici scoprono che è stata colpita da un proiettile di pistola calibro 22, un'arma usata spesso nel tiro a segno, peso in grammi 2,60, a punta cava. Il proiettile si è disintegrato nella nuca di Marta, che muore 5 giorni dopo. I genitori scelgono di donare gli organi. Il 16 maggio 1997 davanti a diecimila persone vanno in scena i funerali della studentessa: sono presenti il rettore Giorgio Tecce, il presidente della Camera, Luciano Violante, il sindaco di Roma Francesco Rutelli, il ministro Luigi Berlinguer, il prefetto Giorgio Musio. Manca all'appello solo il presidente della repubblica.
Un delitto anomalo
Il delitto della Sapienza diventa subito una priorità per i magistrati romani. L'inchiesta viene affidata a Carlo Lasperanza, alla guida di un pool di 80 persone. In assenza di qualsiasi pista si inizia da lei, dalla vittima, da quella bella ragazza bionda la cui unica colpa era quella di passeggiare nel cortile dell'Università. La sua vita è tersa, nessuna ombra, nessun contrasto. Una bella famiglia, un fidanzato, Luca, e una casa al Tuscolano, dove viveva con i genitori e la sorella. Al terzo anno di Giurisprudenza con una borsa di di studio, Marta era anche una talentuosa schermitrice.
Il "muro di omertà"
Se le cariche istituzionali della città si espongono dal primo momento per chiedere la verità, l'ambiente dell'Università guidata dal rettore Giorgio Tecce, reagisce chiudendosi. Le telefonate di alcuni docenti, intercettate dalla polizia, delineano il quadro di un ambiente accademico preoccupato in primo luogo del proprio minacciato prestigio. Il questore di Roma, Rino Monaco, commenta: "Magistrati e investigatori hanno dovuto lottare contro un vero e proprio muro di omertà". Alla Sapienza, dove gli investigatori fanno decine di sopralluoghi, vengono trovati un arsenale e un poligono di tiro. Ci sono pistole, silenziatori e munizioni. Armi utilizzate probabilmente per il tiro a segno. Viene da lì la pistola che ha sparato a Marta?
Aula 6
Il 19 maggio successivo, sempre nel corso dei sopralluoghi nell'ateneo capitolino, i Ris rilevano ‘tracce significative' di polvere da sparo sul davanzale della finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto della facoltà di Scienze Politiche. Altre tracce vengono rilevate nel bagno dei disabili al pianterreno, ma la traiettoria del proiettile sembra escludere che il killer abbia potuto sparare di lì. Chi c'era il 9 maggio in quella stanza? Secondo la ricostruzione, in quella stanza sarebbero entrati, due minuti dopo lo sparo, la dottoressa Maria Chiara Lipari, figlia del professore d ex senatore Niccolò, che fa due telefonata a casa. Nella stanza ci sarebbero stati anche Gabriella Alletto e il bibliotecario Francesco Liparota.
La supertestimone
Proprio la Alletto diventerà la testimone chiave del delitto. Interrogata più volte, in un confronto con la Lipari e Liparota, la Alletto giura di non aver visto, smentendosi solo pochi giorni dopo, quando accusa Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. "Entrata nella stanza vi ho trovato Liparota Francesco che si trovava davanti all'armadio dei periodici. In un angolo, vicino alla finestra, c'erano Ferraro e Scattone. Mi sono avvicinata a Francesco chiedendogli se sapesse dov'era la dottoressa Lipari. Mentre parlavamo ho udito come un tonfo e ho visto Ferraro che portava una mano alla fronte come per disperazione. Al lato della finestra, di spalle al muro, ho visto Giovanni Scattone che impugnava una pistola di colore nero simile a quelle della polizia". Durante questo interrogatorio è presente il cognato poliziotto della Alletto, Luigi di Muro, che più volte interviene.
Un interrogatorio durissimo
Perché la Alletto ha mentito? Forse c'entra qualcosa la presunta sua illecita assunzione, sulla quale gli inquirenti stanno svolgendo un'indagine parallela? La Alletto era ricattabile? E se qualcuno l'aveva ricattata lo aveva fatto perché accusasse o perché omettesse di farlo? Il video con il suo interrogatorio finisce agli atti del processo per abuso d’ufficio e violenza privata istruito dai giudici di Perugia contro Italo Ormanni e Carlo Lasperanza, i due pm che conducono l’inchiesta sull’omicidio di Marta Russo, accusati e poi assolti, per non aver dato alla donna la possibilità di nominare un difensore. La sua, tuttavia, non è l'unica testimonianza discordante, dubbia o tardiva. Anche Liparota ritratta, ma sua madre ammette d'aver sentito suo figlio dire: "Quella ragazza l'hanno ammazzata, non posso parlare perché sennò ammazzano anche me". Il 14 giugno il gip Guglielmo Muntoni emette tre ordini di custodia cautelare: uno a carico dell'assistente Salvatore Ferraro uno a carico del collega Giovanni Scattone e uno per Francesco Liparota.
Nessun movente, nessuna arma, due colpevoli
Tutto il castello castello accusatorio si regge su elementi indiziari. L'arma del delitto, infatti, non è mai stata trovata né per Scattone e il suo presunto complice è stato individuato un movente. Perché avrebbero ucciso Marta? Forse il colpo è partito accidentalmente dall'arma impugnata per gioco? Forse l'obiettivo, come ipotizzato all'inizio dell'inchiesta, non era Marta. A contrastare con l'ipotesi del colpo partito per sbaglio ci sono le perizie che dimostrano che solo sporgendosi e mirando il cecchino poteva avere qualche chances di colpire un bersaglio in movimento. Il 20 aprile 1998 nell’aula bunker del Foro italico di Roma inizia il processo presieduto da Francesco Amato, giudice a latere Giancarlo De Cataldo. Il 15 dicembre 2003, la Quinta sezione penale della Cassazione condanna definitivamente Scattone a 5 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio colposo; Ferraro a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento. Assolti Liparota e gli altri 5 imputati di favoreggiamento. Nonostante la verità storica attribuisca a Scattone e Ferraro – che hanno sempre protestato la loro innocenza – la paternità del delitto, quello di Marta Russo resta uno dei casi più enigmatici degli ultimi anni.