Abbiamo visto tutti le immagini delle montagne senza neve, gli stabilimenti sciistici chiusi, le piste da ridotte a nastri bianchi stesi sopra prati verdi, le mappe meteo di tutta Europa costellate da temperature che superavano di diversi gradi le medie attese in questo periodo. Qualcuno, alle altitudini più elevate, può infilare la testa sotto la neve e far finta che nulla sia cambiato, ma per la maggior parte della gente è chiaro come la crisi climatica ci stia consegnando un paesaggio invernale completamente stravolto. E mentre comprensibilmente alcuni si domandano per quanto il turismo invernale possa essere mantenuto in animazione sospesa a colpi di neve artificiale, altri allargano lo sguardo a inquadrare il problema nel suo complesso, preparandosi a una scarsità idrica che rischia di essere addirittura peggiore di quella dello scorso anno.
Perché il problema non riguarda solo le montagne, e nemmeno soltanto l’Italia, quanto stiamo vedendo è il prodotto di una crisi climatica che vedrà gli episodi siccitosi aumentare e intensificarsi progressivamente. L’acqua è sempre più un bene di scarsità, in sempre più zone del mondo, e come era prevedibile, mentre noi piangiamo la chiusura di sempre più stabilimenti sciistici, nel mondo è partita la corsa per trovare una soluzione per garantire un approvvigionamento idrico anche in assenza di precipitazioni.
Tra tutte le soluzioni sul tavolo, una in particolare sta guadagnando i riflettori in questo periodo, una soluzione viene postulata da decenni ma che ancora deve dimostrare di poter essere efficace: recuperare acqua direttamente dal vapore presente nell’atmosfera.
Trasformare l’aria in acqua
Leggenda vuole che i primi a capire che si poteva ricavare acqua dall’aria furono gli antichi greci. Nello specifico gli abitanti di Teodosia (oggi Feodosia, in Crimea) i quali, stando ad alcuni ritrovamenti, avevano forgiato delle grosse pietre a forma di scodella che consentivano di raccogliere l’umidità ottenendo acqua in forma liquida. Il principio fisico alla base era semplice: durante la notte la pietra si raffreddava, quando poi durante il giorno veniva a contatto con l’aria più calda e satura d’umidità ne provocava la condensazione.
I sistemi di raccolta dell’acqua atmosferica impiegati a livello locale negli ultimi decenni funzionano in maniera simile. Nelle località costiere vengono utilizzate grandi maglie verticali poste in perpendicolare alla direzione del vento, così che le gocce d’acqua presenti nella nebbia possano essere intrappolate passivamente per poi essere raccolte e utilizzate; questo approccio prende il titolo di FWC (Fog Water Collection), ed è poco efficiente, anche perché la sua resa dipende dalle condizioni di umidità e vento. Diverso è il caso della DWC (Dew Water Collection), che hanno cominciato a diffondersi a livello massiccio intorno agli anni ’80 e che prevedono l’estrazione di acqua dall’aria con un approccio simile a quello dei condizionatori e dei deumidificatori, e che pertanto richiedono un apporto energetico. Un altro approccio prevede l’utilizzo di materiali essicanti solidi o liquidi che aiutino ad assorbire umidità per poi rilasciarla in forma d’acqua.
La lezione degli animali e delle piante
Come spesso accade, andando ad osservare i sistemi di ottimizzazione delle risorse che l’evoluzione ha dato in eredità ad animali e piante è possibile trovare soluzioni applicabili in altri contesti. Vale per gli studi sull’aerodinamicità delle ali, vale per il velcro ed altri materiali di ispirazione biologica, e vale anche per la raccolta di acqua dall’aria. Nei decenni passati, diversi ricercatori hanno tentato di sviluppare materiali che potessero imitare caratteristiche idrofiliche o idrorepellenti di organismi presenti in natura, ma questa biomimesi tendeva a prendere a modello un organismo per volta. Nel 2016, la squadra guidata dalla scienziata dei materiali americana Joanna Aizenberg ha creato un materiale che combina le caratteristiche di tre specie diverse: il coleottero delle nebbie (il cui carapace alterna una superficie idrorepellente a piccole gobbe idrofiliche), il cactus (le cui spine a V sono fatte in modo da incanalare l’acqua verso il corpo della pianta) e le piante carnivore (le cui pareti interne sono caratterizzate da superfici a bassissimo attrito). Il risultato è un materiale ibrido, caratterizzato da rilievi asimmetrici e inclinati che consentono di raccogliere umidità in modo assai più efficiente.
Ma la biomimesi (anche se in questo caso sarebbe più adatto parlare di “bioispirazione”) non è l’unica frontiera esplorata al momento. Lo scorso febbraio, ad esempio, sulla rivista “Angewandte Chemie”, Guihua Yu e altri ricercatori dell’Università di Austin hanno mostrato come l’efficienza della raccolta potesse essere ulteriormente migliorata utilizzando un nuovo tipo di idrogel combinato a una particolare qualità di sale igroscopico: nel giro di 24 ore, il team è riuscito a ottenere 6 litri di acqua per ogni chilogrammo di idrogel a partire da un ambiente con il 30% di umidità.
Intanto che queste tecnologie vengono affinate, c’è chi comincia a inquadrare un orizzonte in cui la cattura di acqua dall’atmosfera sarà impiegata in maniera massiccia. Lo scorso dicembre, per dire, Praveen Kumar del Praire Research Institute ha firmato uno studio in cui ipotizza l’installazione, in località già oggi caratterizzate da scarsità idrica, di strutture offshore larghe 210 metri e alte 100 che consentiranno di catturare l’umidità prodotta dall’evaporazione dell’oceano.
Ma c’è bisogno di (molto) più di questo
Mentre nei vari deserti molte aziende e gruppi di ricerca sono già oggi impegnati a testare nuove soluzioni di raccolta di acqua atmosferica, il clima globale continua a cambiare, e il problema dell’approvvigionamento idrico si fa più pressante in ogni parte del mondo. Sono passati solo sei mesi dallo scorso giugno, quando il nostro paese ha dovuto affrontare una siccità senza precedenti, in cui centinaia di comuni sono stati costretti a razionare l’acqua e bloccarne l’erogazione nelle ore notturne, quando nelle strade sfrecciavano autobotti che andavano a rifornire insediamenti rimasti a secco, quando l’acqua salata dell’Adriatico risaliva il Po per decine di chilometri, andando a flagellare ulteriormente terreni già compromessi da mesi senza piogge. Quella siccità era anche colpa di un periodo invernale caratterizzato da poche precipitazioni e pochissima neve.
È ragionevole dunque prepararsi a un’altra primavera siccitosa, e a quello che nei prossimi anni rischia di diventare un pattern sempre più ricorrente. Per farlo non basterà investire in tecnologie di cattura dell’acqua atmosferica, anche nell’eventualità in cui queste si dimostrassero finalmente efficaci e scalabili.
L’abbiamo detto: nel prossimo futuro non potremo permetterci di sprecare una sola goccia d’acqua. E come spesso accade quando si parla di crisi climatica, questo significa che dovremo rinunciare a trovare una soluzione unica per seguire più strade in parallelo. E allora sarà fondamentale sistemare un’infrastruttura idrica che nel nostro paese comporta la dispersione del 40% dell’acqua trasportata, ottimizzare la distribuzione attraverso la digitalizzazione dei circuiti integrati, creare invasi per la raccolta di acqua piovana, e soprattutto, implementare sistemi di riutilizzo delle acque reflue. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, basti pensare che mentre paesi come Singapore sono in grado di ripotabilizzare il 40% delle acque di scarico, e mentre le nazioni UE sono ormai in grado di trattare il 76% delle proprie acque di scarico in modo da poterle sfruttare per l’agricoltura e altri impieghi, in Italia questa percentuale ancora non supera il 56%. Il paese con il consumo d’acqua pro capite più alto d’Europa, insomma, è anche quello che ne spreca di più.
Il nemico peggiore è ancora una volta la crisi climatica
Quando si parla di soluzioni tecnologiche alle ricadute della crisi climatica si tende a dimenticare che trattare i sintomi non equivale ad arginare la malattia; e anzi, così facendo si rischia di rimandare ulteriormente la soluzione di un problema che richiede una risposta trasversale e immediata. L’aumento delle temperature sta seriamente intensificando il ciclo dell’acqua a livello globale: uno studio pubblicato lo scorso febbraio da Taimoor Sohail della University of South Wales ha mostrato come negli ultimi cinquant’anni il cambiamento climatico abbia aumentato il ciclo di evaporazione del 7,4%, praticamente il doppio di quanto era stato stimato in precedenza. In soldoni, dicono gli autori dello studio, questo significa che dal 1970 ad oggi una quantità d’acqua compresa tra 46.000 e 77.000 chilometri cubici si è spostata dalle regioni più calde a quelle più vicine ai poli.
Rallentare questo processo è fondamentale, e l’unico modo per farlo è ridurre le emissioni il più velocemente possibile. Nel farlo, però, è anche necessario ridurre il consumo idrico globale che è passato dai 600 miliardi di metri cubi del 1900 a superare oggi i 4000 miliardi di metri cubi. Se i trend di crescita attuali non mutano (spoiler: non stanno mutando), la situazione è chiaramente destinata a peggiorare, e non passerà molto prima che diventi insostenibile anche in paesi del mondo che non hanno mai avuto seri problemi di approvvigionamento idrico.
Presto, insomma, gli impianti sciistici senza neve saranno l’ultimo dei nostri problemi.