C'è molta mafia, oggi, nelle prove di maturità che stanno affrontando gli studenti. C'è la mafia trasformata mirabilmente in letteratura da Sciascia ne "Il giorno della civetta" e c'è la mafia che uccise il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 3 settembre 1982, poco dopo le 21, a bordo di una A112 bianca mentre rientrava a casa con la moglie Emanuela Setti Carraro in via Carini a Palermo. 30 colpi di kalashnikov furono sparati, roba da guerra, guerra vera. A morire fu anche Domenico Russo, agente di scorta che viaggiava su un'altra auto.
Dalla Chiesa inviato in Sicilia per combattere la mafia sull'onda dei successi ottenuti nella lotta al terrorismo e poi rimasto irrimediabilmente solo, abbandonato dallo Stato, è forse il paradigma tra i più alti che possiamo avere dell'inerzia delle istituzioni contro un mostro che avremmo potuto limitare già da tempo se non godesse di altissime protezioni e della mancanza di una reale volontà a tutto campo di liberarsene davvero. Si muore quando si resta soli e Dalla Chiesa fu solo. A Palermo più come specchietto per le allodole che per un'effettiva azione di contrasto che aveva richiesto a gran voce e che continuava ad aspettare. Poteri che, come al solito, vennero dati troppo tardi (al suo successore Emanuele De Francesco) e solo dopo una morte di mezzo. Solo il sangue ha dato qualche spinta indifferibile alla politica nella lotta alla mafia: successe nel 1982 con Dalla Chiesa e succederà dieci anni dopo con la morte di Falcone e di Borsellino. Eppure il generale sapeva benissimo che la lotta alle mafie è assolutamente impari se non concorrono tutte le forze sane di una società e delle istituzioni. Il giorno successivo, il 4 settembre, comparse un cartello "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti": fu l'epitaffio migliore tra le ridondanti celebrazioni funebri dell'ipocrisia istituzionale che si finge contrita sempre il giorno dopo.
Per questo conta che ai maturandi venga proposta una riflessione su quel tempo che squarciò un'epoca di sangue contro uno Stato attonito. E partire dal discorso di Luigi Viana quando fu Prefetto di Parma, è anche il modo per umanizzare una figura che rischia di diventare solo un simbolo, un mito, un orpello da tenere sulla scrivania senza discuterne, una morte che non sappia più parlare mentre il generale Dalla Chiesa in realtà fu anche quello che per primo decise di scendere tra la gente, a Palermo, visitando le fabbriche e incontrando gli studenti. «Parla di legalità, di socialità, di coesione, di fronte comune verso la criminalità e le prevaricazioni piccole e grandi. E parla di speranza nel futuro. Mostra la vicinanza dello Stato, e delle sue Istituzioni. Desidera che la Prefettura sia vista come un terminale di legalità, a sostegno della comunità e delle istituzioni sane che tale comunità rappresentano democraticamente.», disse Luigi Viana ricordandolo al trentennale della sua morte con un discorso che profuma di futuro, esercitando la memoria piuttosto che limitarsi a commemorarla.
E viene da pensare che ne abbiamo tanto bisogno di giovani che tengano in tasca il seme gettato da Dalla Chiesa mentre se ne andranno poi in giro per il mondo. Dalla Chiesa fu un uomo convinto che la mafia si può sconfiggere. Il suo sangue è un dovere per tutti gli uomini civili, leali e rispettosi delle regole. Liberi.