Tomb Raider in stile calabrese, Loop Loona come Lara Croft
Fino a ieri quando si accennava all’argomento musica e ‘ndrangheta la mente andava subito alla speculazione commerciale dei cd intitolati “Musica della mafia”. Le canzoni presentano all’estero, in particolare in Germania (dove si sono radicate diverse ‘ndrine), il fenomeno della ‘ndrangheta come l’aspetto violento di una cultura atavica; e, si sa, quando ai popoli anglosassoni proponi il folklore primitivo e selvaggio del Mezzogiorno vanno in sollucchero e sono disposti a credere anche alle più ignobili fandonie.
Già con il premio/contest “Musica contro le mafie”, la Calabria civile ha dimostrato di essere in grado di strapparsi dalle vesti questa etichetta di musicalità popolare criminale, ma ora, dopo il rap “Dalle mie parti” di Luana Crisarà, alias Loop Loona, la visione immaginaria di un’ancestralità mafiosa passa in secondo piano sotto i colpi di un crudo realismo audiovisivo. Il rap ancora una volta si propone come messaggio di denuncia di realtà degradate, cruenti in cui, come si afferma nel testo, è difficile sognare.
La scelta stilistica del bianco e nero ci trascina, da subito, in un mondo senza colori il cui unico dettaglio cromatico di rilievo è il sangue che sorga dalla testa di un uomo ucciso perché “ha sbagliato a parlare”. È, dunque, il silenzio la regola aurea da seguire se non vuoi finire morto ammazzato. In questo mondo grigio, dove le donne vanno ancora in giro portando sulla testa le ceste e i ragazzi giocano a pallone in un campo polveroso e assolato, sembra che il tempo, nonostante gli evidenti segni di una modernità distorta, si sia fermato. Gli uomini hanno le sembianze di predatori feroci che danno la caccia ad animali di piccola taglia impauriti e abbandonati al loro destino di vittime predestinate.
Ovunque vi sono immagini sacre che annunciano la proclamazione del lutto, un lutto collettivo dentro il quale arcangeli, madonne, croci, santi e armi sono allo stesso tempo culto di venerazione e fonte di controllo sociale. Altro che le “cazzate gangsta” di “uomini duri ma di cartapesta”, dice un verso della canzone. La morte è il pilastro della sacralizzazione di un potere criminale, una compagna di viaggio che ti guarda diritto negli “occhi” attraverso i fori di un fucile a “canne mozze” (nel 1991 durante una faida tra i clan di Taurianova – la città in cui è nata Loop Loona – fu mozzata la testa ad un mafioso e usata come bersaglio di un macabro tiro al piattello).
Al centro del video spicca la rapper. Appare in uno scasso (il cimitero delle automobili) dopo una sequenza di immagini in cui appare, prima, un paese desolato e, poi, un camposanto con sepolture anonime. Tiene nella mano destra, appoggiato alla spalla, un Kalashnikov come se stesse portando un borsetta a tracollo. È vestita di nero e si esprime senza rabbia ma con la determinazione di chi ha vissuto ciò che racconta. A vederla sembra una Lara Croft mediterranea, protagonista di un Tomb Raider in stile calabrese. Non voglio sminuire la forza comunicativa del suo rap ma l’immagino mentre con il suo fucile mitragliatore fa piazza pulita degli ‘ndranghetisti aggirandosi tra lapidi e sepolcri oscuri. Con ogni probabilità il regista ha voluto giocare sul confronto tra la figura della guerriera solitaria e il mondo atroce, fintamente arcaico e opportunisticamente religioso, della ‘ndrangheta.
Che la ragazza, classe 1985, sia una tipa tosta lo ha dimostrato con l’assidua partecipazione ai contest di freestyle di Mtv Spit, in cui, nella prima edizione, è stata l’unica donna in gara. Intervistata recentemente ha mostrato di avere qualità comunicative superiori alla media dei suoi colleghi: “… c’è sempre il furbo di turno che riesce a ottenere molto di più tramite conoscenze e sotterfugi. Ma alla fine mi ritrovo sempre a fare la scelta giusta, e non perché ho paura, ma perché credo seriamente che se riesco a raggiungere un obiettivo con le mie forze nessuno mi potrà togliere quello che è mio”.
Una scelta individualista in cui l’ambizione diviene pulsione a migliorare le proprie condizioni senza cedere alle facili illusioni del denaro perché alla base delle sue motivazioni c’è il “rispetto per alcuni valori” inculcatogli dai “genitori”.
Ma è questo stesso individualismo che la conduce a dichiarare: “attualmente avrei più paura di essere uccisa per mano della Stato (vedi il caso Cucchi come esempio) che per mano della criminalità”. Una generalizzazione che spaventa. Cara Luana, lo scrivo senza polemica, chi ha ucciso Cucchi e tutte le altre vittime innocenti (casi comunque minoritari rispetto alla guerra civile mafiosa in cui siamo coinvolti) non rappresenta lo Stato; sono esseri ignobili che si nascondono dietro la divisa indegnamente indossata. Sono equiparabili ai criminali che tu giustamente accusi. Tuttavia non è giusto fare di tutta l’erba un fascio: basterebbe ricordare quanti poliziotti e carabinieri sono morti in adempimento del dovere proprio perché hanno cercato di rendere la tua Calabria e il nostro Mezzogiorno un luogo in cui sia possibile restare e vivere, anche per chi è andato via.