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“Tiriamo giù Matteotti dalle targhe e dai piedistalli per raccontare le sue idee”

Intervista a Vittorio Zincone, autore di “Matteotti dieci vite” (Neri Pozza). Il giornalista nel libro racconta l’avventurosa parabola del leader socialista assassinato dal fascismo ormai un secolo fa. “Il suo è l’esempio di come la politica dovrebbe essere”.
A cura di Valerio Renzi
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Cosa sapevi di Giacomo Matteotti quando hai iniziato a lavorare al libro? 

Sono nato e cresciuto a pochi metri dalla scultura che ne ricorda il rapimento e la morte, sul lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma. Ho sempre avuto quel nome sotto gli occhi, ma Matteotti per me era una vittima del fascismo e poco più. Come per la maggior parte degli italiani il suo nome è una piazza, una via, un ponte. È il personaggio più monumentalizzato del Paese e allo stesso tempo quello di cui si sa di meno.

Matteotti ha vissuto “Dieci vite”, ma il racconto che se ne fa anche oggi, a pochi giorni dal centenario dell’omicidio, è soprattutto il racconto dell’omicidio, del suo movente, del ruolo di Mussolini e così via. Oggi abbiamo occasione di riscoprire una figura più complessa?

Decisamente sì. Le dieci vite citate nel titolo del libro sono quelle che lui stesso avrebbe voluto avere. Lo dice lui stesso, “vorrei avere dieci vite”. Perché aveva una vitalità e una forza sorprendenti. E perché effettivamente ne ha fatte talmente tante da riempire dieci vite: è stato un ricco proprietario terriero in un Polesine poverissimo, ed è lì che ha conosciuto la miseria dei braccianti e ha deciso di cominciare a lottare per migliorare le loro condizioni. È stato un giurista studiosissimo e appassionato di statistica, un sindacalista inarrestabile, un amministratore locale meticoloso e attentissimo ai conti pubblici e ai problemi della scuola. È stato un antimilitarista finito per punizione a fare il soldato. È stato un parlamentare attivissimo, nonché il più implacabile oppositore del fascismo.

Tanto presente nella vita pubblica e politica, quanto assente in quella privata…

È stato un padre poco presente e un marito allo stesso tempo presentissimo ma molto assente. Da questo punto di vista decisamente un uomo del suo tempo. Sappiamo molto della sua vita proprio grazie al carteggio epistolare tra Giacomo e Velia, sua moglie, curato dallo storico Stefano Caretti a metà anni Ottanta. Ammetto di aver subìto una specie di innamoramento nei confronti di Matteotti. Trovo la sua storia incredibilmente appassionante, avventurosa.

Parlando di biografie avventurose del Novecento però, Matteotti non viene certo in mente per primo…

È vero non è andato né in Spagna a combattere il fascismo, né è sbarcato su un isola per fare una rivoluzione, ma non è stato neanche il grigio parlamentare che si limitava a fare discorsi fumosi. Se ci si immerge nella sua vita, scopriamo un vitalismo fuori dal comune, e una biografia segnata dalla battaglia politica e dal costante movimento, da incontri carbonari, duelli mancati, risse, rapimenti. Matteotti viaggia, incontra i partiti gemelli in Europa, e va in Inghilterra, in Francia, in Svizzera. Per fare propaganda esce clandestinamente dal paese, parla diverse lingue.

Per il centenario dell'omicidio stanno uscendo decine di libri e centinaia di articoli. Spesso mi sembra che Matteotti venga "tirato per la giacchetta" da una parte o dall'altra, per iscriverlo indebitamento nel proprio Pantheon o per tesserarlo al proprio partito. Che ne pensi?

Neanche a me piace chi tira strumentalizza la figura Matteotti, anche perché non credo che serva. Raccontare la sua storia in un modo o nell'altro è mettere nero su bianco una best practice della politica, diremmo oggi, è scrivere di uno dei migliori esempi credo di cosa è la politica. In molti vogliono affermare le loro ragioni di oggi rileggendo le vicende di ieri. Io ho provato a raccontare una vita piena, anche di dispiaceri e sconfitte. Matteotti va tolto dalle targhe delle piazze e dei piedistalli, per farlo vivere.

Della vicenda politica di Matteotti quello che spesso mi ha colpito è che si tratta di un politico e di un militante così rigoroso, da trovarsi quasi sempre in minoranza anche tra i “suoi”, un anticonformista per definizione. È un convinto riformista, ma non sopporta chi cede al trasformismo e alle lusinghe di epoca giolittiana criticandole aspramente; è un gradualista ma lavora sempre all’unità del fronte socialista e così via…

È verissimo: era rigorosissimo e anticonformista, nel senso più nobile del termine. Non si conformava ai capricci vuoti, alle tattiche ottuse, ai cedimenti personalistici. Lui stesso dà una definizione del suo riformismo gradualista che ogni progressista si dovrebbe tatuare in fronte: transigente nella forma, intransigente nella sostanza. In un periodo in cui molti socialisti massimalisti erano concentrati nel negare ogni possibile accordo con i partiti borghesi e molti riformisti cedevano sui principi fondamentali, lui andava al sodo, non perdeva mai di vista l’obiettivo: migliorare le condizioni di vita del proletariato, dei braccianti e degli operai. E per dire quanto fosse coerente con questo obiettivo: da amministratore comunale, da consigliere provinciale e da deputato lui ha sempre proposto leggi e provvedimenti che sfavorivano i proprietari terrieri come lui e le sue imprese di famiglia, per favorire il bene comune e le masse proletarie. Arrivò a proporre l’abolizione dell’eredità, seguendo il principio per cui ogni generazione dove assistere a una redistribuzione totale. Un riformista, gradualista, che proponeva leggi che oggi non verrebbero prese in considerazione neanche dai più nostalgici del comunismo.

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Nonostante non sia mai stato un teorico, nel racconto serrato che ne fai nel tuo libro, leggiamo come Matteotti non è stato solo un intransigente oppositore della Prima Guerra Mondiale e un internazionalista convinto, ma anche un sostenitore della “pace giusta”. Dimostrava così di avere uno sguardo lungo e acuto sulle vicende del suo tempo, mettendo in guardia dagli effetti disastrosi che avrebbe avuto una pace ingiusta e la punizione degli sconfitti…

La sua sembra quasi preveggenza. In realtà era una straordinaria capacità di analisi dei fenomeni complessi dovuta al fatto che studiava, leggeva in più lingue, approfondiva i dossier e aveva sempre la pretesa di saperne di più. Leggendo Keynes, nel 1920, capisce che la Pace di Versailles e la voglia di vendetta punitiva dei francesi contro la Germania, porterà inevitabilmente a un tracollo economico degli sconfitti, a un indebolimento del mercato europeo e a nuove pericolosissime pulsioni nazionalistiche.

Chissà cosa avrebbe pensato Matteotti di Berlinguer e di Craxi, di Mani Pulite e del Muro di Burlino, della globalizzazione e delle guerre di oggi. Ma anche cosa avrebbe pensato dei saluti romani al “presente” per Ramelli o di Acca Larentia e dell’arrivo al governo di una destra che non si sa dire “antifascista” ma al massimo “afascista”. Immagino che ci avrai pensato. Mentre tutti lo tirano per la giacchetta, Giacomo Matteotti cosa ci può dire sul presente?

Ammetto che non sono un grande appassionato del What if… Matteotti era un avversario dei comunisti, ma il comunista Berlinguer aveva molto poco a che fare, nelle intenzioni politiche, con Gramsci e Togliatti che negli anni Venti auspicavano una dittatura del proletariato di stampo sovietico. Ne avrebbe apprezzato il rigore e l’attenzione alle esigenze del popolo. Di Craxi forse avrebbe amato lo sguardo internazionale, ma non il leaderismo e nemmeno la collusione tra affari e politica, che Matteotti ha combattuto tutta la vita denunciandola in ogni sede.

Rimane però una lezione per l'oggi?

Matteotti è stato la politica come andrebbe fatta, con competenza e rigore, con radicalismo e passione. La sua lezione è questa. Lui vedendoli in azione, vedendo come i proprietari terrieri usavano il manganello fascista per far arretrare le conquiste dei lavoratori, cominciò a denunciare il pericolo di una dittatura nel gennaio del 1921. Diciotto mesi prima della Marcia su Roma. Il suo allarme, rimase inascoltato. Quello che ci può dire oggi Matteotti è proprio che non bisogna mai avere paura di denunciare un’ingiustizia, un sopruso, una ricostruzione storica strumentale, un uso vergognoso della violenza da parte dello Stato. Lui da questo punto di vista era implacabile. Non ne faceva passare una. I suoi interventi e le sue schermaglie parlamentari da questo punto di vista sono una lettura incredibile.

La destra italiana ha investito moltissime energie sull’uso publico della storia negli ultimi vent’anni. Un investimento il cui segno più evidente è il “Giorno del Ricordo”. Come affronteranno il governo e Giorgia Meloni secondo te l’appuntamento con il centenario?

Le premesse non fanno ben sperare. Le ricostruzioni storiche che si sono sentite negli ultimi mesi, secondo le quali a via Rasella sono stati uccisi dei musicisti in pensione e non dei soldati nazisti, e alle Fosse Ardeatine furono trucidati degli italiani e non degli antifascisti e degli ebrei, fanno pensare a un uso della storia che nella migliore delle ipotesi è sciatto. Lancerei una provocazione al ministro Sangiuliano, che si diletta in questa equiparazione grottesca del fascismo col comunismo, salvo poi spellarsi le mani per applaudire Berlinguer (come se Berlinguer non fosse stato il leader supremo del comunismo italiano dal 1972 al 1984): Matteotti è morto ammazzato dai sicari di Mussolini, ma era anche un avversario dei comunisti. Ecco, se davvero Sangiuliano è antifascista, facesse innalzare un nuovo monumento (in piazza Montecitorio, per esempio) per onorare Giacomo Matteotti, non omettendo però di scrivere ben chiaro “ucciso dai fascisti”. Onorare Matteotti senza gridare forte e scrivere chiaro che venne ucciso dai fascisti, dai sicari di Benito Mussolini, è semplicemente osceno. E costituirebbe un tentativo deplorevole di riscrivere la storia.

Se dovessi scegliere una singola scena della vita di Matteotti che hai raccontato per spiegare chi fosse, quale sceglieresti?

Ce ne sono davvero tante che lo descrivono: Matteotti braccato dai fascisti che cerca di raggiungere i suoi braccianti in Veneto, durante la campagna elettorale del 1921, incappucciato, nell’ombra per non farsi riconoscere; Matteotti, anticlericale, a casa di don Luigi Sturzo, che prova a costruire una maggioranza parlamentare per frenare l’ascesa di Mussolini; Matteotti nel suo studio, a Fratta Polesine, che scrive una lettera appassionata a Velia in cui parla allo stesso tempo d’amore, di politica, di arte, di teatro e di come arredare una stanza.

In realtà però, le scene che descrivono di più Matteotti, la sua competenza, la sua forza, il suo coraggio, la sua passione per il bene dei proletari e la sua capacità di analisi e di opposizione al fascismo, sono quelle che si svolgono a Montecitorio, sui banchi della Camera dei Deputati. E tra le tante io scelgo la seduta del 31 gennaio 1921, quando cioè “con la schematicità di un sillogismo”, descrive per la prima volta la violenza codarda delle squadracce di Mussolini, il silenzio della stampa borghese e l’immobilismo, se non la complicità, delle forze dell’ordine.

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